Nella sentenza 28 febbraio 2018, n. 1229, il Consiglio di Stato ha sancito che, con riferimento all’art. 6 della Direttiva Quadro Rifiuti (Dir. 2008/98/CE), i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto, in mancanza di provvedimenti comunitari, possono essere definiti dal singolo Stato membro, il quale non può tuttavia attribuire questo potere ad enti/organizzazioni interne; ciò significa, per l’Italia, non poter delegare le Regioni.
Nella fattispecie, il Consiglio di Stato ha censurato la sentenza con cui il TAR Veneto aveva accolto, riguardo ad una società con impianto per attività di recupero, il ricorso dalla stessa presentato contro una delibera di giunta regionale con cui era stata respinta la richiesta di qualificare le attività dell’impianto come attività di recupero R3 (Recupero di sostanze organiche). L’impianto era stato previamente autorizzato a svolgere un’attività sperimentale per il trattamento e recupero di rifiuti urbani e assimilabili (pannolini, assorbenti igienici, etc.) e, in sede di autorizzazione, le frazioni recuperate (due frazioni) dal processo di sanificazione erano state classificate originariamente come rifiuti (con corrispondente codice CER). In seguito, fatte ulteriori approfondite analisi, la società aveva presentato domanda di modifica dell’autorizzazione, per poter classificare come MPS (materie prime seconde) le due frazioni recuperate, in quanto sottoposte a specifiche procedure di recupero che avevano determinato la cessazione della qualifica di rifiuto.
Il TAR, in applicazione del comma 2 dell’art. 184 ter del Codice ambientale, secondo la prassi in vigore, ha sostenuto che, in mancanza di Regolamenti comunitari o Decreti ministeriali che stabiliscono i criteri per le procedure di recupero di determinati rifiuti, l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione non solo può ma deve procedere ad una analisi e valutazione del caso specifico con rilascio dell’autorizzazione qualora la sostanza che si ottiene dal trattamento e recupero del rifiuto soddisfi le quattro condizioni di legge (l’orientamento della sentenza del TAR è peraltro uniformato alla nota del Min Ambiente 1° luglio 2016).
Al contrario, secondo il Consiglio di Stato, le determinazioni del TAR contrastano con l’art. 6 della citata Direttiva Quadro, che andrebbe letto nel senso che: se i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste) non sono stabiliti a livello comunitario, tali criteri possono sì essere stabiliti dallo Stato membro, ma in via esclusiva, senza alcuna possibilità di delegare a tal fine enti/organizzazioni interne: alle Regioni sarebbe pertanto precluso il potere di stabilire criteri End of Waste, valutando “caso per caso” la richiesta proveniente dall’impresa. Qualora infatti si consentisse alla singola Regione di definire, in assenza di normativa CE, i criteri per l’EoW, ne risulterebbe violata la ripartizione costituzionale delle competenze fra Stato e Regioni.
Tale “valutazione caso per caso”, ritiene il Consiglio di Stato, non può che essere riferita all’intero territorio di uno Stato membro: essa va riferita non già al singolo materiale da esaminare ed eventualmente declassificare con specifico provvedimento amministrativo, ma va invece riferita alla “tipologia” di materiale da esaminare e da far diventare oggetto di una più generale previsione regolamentare a monte (gerarchicamente superiore) dell’esercizio della potestà provvedimentale autorizzatoria (coerentemente con l’art. 117 Cost. che attribuisce la tutela ambientale alla potestà legislativa esclusiva).
Alcune riflessioni sulla portata di questa pronuncia del Consiglio di Stato.
Nel caso in cui le Regioni scelgano di uniformarsi ai contenuti della sentenza, si assisterebbe alla deprecata situazione per cui, quando verranno a scadenza le autorizzazioni attualmente in essere, gli impianti di recupero non potranno più operare producendo materie seconde e/o prodotti derivanti dal recupero di rifiuti “fuori specifica”.
In particolare, sulla base delle premesse secondo cui:
- attualmente sono pochissimi i criteri stabiliti con i crismi sanciti dal Consiglio di Stato (tre Regolamenti comunitari e un solo Decreto ministeriale: Reg.UE 333/2011, sui rottami di ferro, acciaio, alluminio e leghe di alluminio; Reg.UE 1179/2012, sui rottami di vetro per un particolare uso; Reg.UE 715/2013, sui rottami di rame; D.M.22/2013, contenente i criteri per definire come prodotto il combustibile solido secondario di qualità -unica disciplina di carattere nazionale al momento vigente-);
- a norma del comma 3 art. 184 ter, nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’Ambiente relativi ad attività di recupero “esercitate” in base a “comunicazione di inizio attività”, cioè con procedura semplificata;
qualora i summenzionati enti competenti seguano il diktat del Consiglio di Stato, molto probabilmente, allo scadere delle autorizzazioni degli impianti di recupero, in mancanza di nuovi Regolamenti UE o normative nazionali contenenti i criteri per l’EoW, si verificherebbe una situazione per cui:
- gli impianti che esercitano l’attività di recupero in procedura semplificata (con comunicazione di inizio attività) potranno continuare ad operare;
- mentre gli impianti di maggiori dimensioni, tipicamente autorizzati ex artt. 208, 209, 210Lgs. 152/2006, cioè mediante procedura ordinaria, basata su un iter molto più complesso di valutazione per il rilascio dell’autorizzazione da parte dell’Autorità competente; o comunque, per gli impianti che fanno attività di recupero di tipologie di rifiuti non rientranti nella disciplina dei Regolamenti UE e nemmeno nei D.M. 5/02/1998 e 261/2002, stante la preclusione per la PA di valutare caso per caso se da un rifiuto, in base a determinate procedure di trattamento/recupero (magari innovative!) si possa ricavare un prodotto, questi impianti non potranno più operare … con l’ulteriore effetto negativo di una battuta d’arresto nel percorso di transizione verso l’Economia circolare, fondata sul concetto del rifiuto come risorsa.
Nell’attesa di vedere come in seguito si pronuncerà la giurisprudenza, si attendono chiarimenti da parte del legislatore.