La Corte Europea di Giustizia (CGE), con sentenza 28 marzo 2019 (cause riunite C-487/17 e C-489/17), si è occupata del tema della classificazione dei rifiuti con codici a specchio, in ordine ai quali, come noto, la natura pericolosa o non pericolosa non è stabilita dalla legge, ma deve essere determinata dal produttore a seguito di specifico accertamento.

Ad eliminare ogni dubbio su quale debba essere l’oggetto di tale accertamento, con la citata sentenza (emanata a seguito di Ordinanza di remissione del luglio 2017 da parte della Corte di Cassazione), la CGE è intervenuta riguardo ad un caso in cui erano stati classificati e gestiti come non pericolosi rifiuti (con codici a specchio, per l’appunto), che, in applicazione di criteri diversi, avrebbero potuto essere qualificati come pericolosi.

La CGE ha basato la propria decisione su due principali normative comunitarie: il Regolamento UE 1357/2014 e la Decisione UE 955/2014.

In particolare, il Reg. (UE) 1357/2014, emanato in un’ottica di armonizzazione della classificazione delle sostanze chimiche[1], ha introdotto il nuovo Allegato III alla Dir.2008/98/CE (l’equivalente, in Italia, dell’Allegato I, Parte Quarta, Codice ambientale), stabilendo il principio della prevalenza della prova sulla valutazione inerente il rispetto dei limiti di concentrazione: tale principio comporta che se nel rifiuto siano superati i limiti di concentrazione di una data sostanza, oltre i quali scatta la classificazione come pericoloso, la pericolosità potrà eventualmente essere esclusa da test specifici, condotti in base a criteri europei o utilizzati da Organismi internazionali accreditati.

La Decisione 955, modificando la precedente Decisione 2000/532/CE (in particolare relativamente alla parte introduttiva -le premesse alla descrizione del processo di classificazione del rifiuto-), ha confermato che l’attribuzione della caratteristica di pericolosità, per quanto riguarda in particolare i rifiuti con codici a specchio, deve avvenire in base al criterio delle “sostanze pericolose pertinenti” (pertinenti con il ciclo produttivo del rifiuto e con le sue caratteristiche intrinseche).

I due citati provvedimenti europei, emanati nel dicembre 2014, entrarono in vigore il 1° giugno 2015.

Circa un anno prima, in Italia, era stato emanato il D.L. 91/2014, convertito con Legge 116 dell’11 agosto 2014, che, riguardo alle modalità di classificazione dei rifiuti con codici a specchio dettava una rigida interpretazione del principio di precauzione[2].

I principi del Reg. (UE)1357/2014 e della Decisione 955/2014/UE vennero poi recepiti in Italia nel 2017 (con la Legge 123/2017, di conversione del D.L. 91/2017).

Nel mentre, la Corte di Cassazione aveva ritenuto di dover investire della questione interpretativa la CGE, che nel marzo scorso si è espressa con la summenzionata sentenza, respingendo l’interpretazione rigida del principio di precauzione (tesi della “pericolosità presunta”) e abbracciando invece il contrapposto orientamento fondato sulla tesi della “probabilità”, che in sostanza prevede per il produttore:

  • la facoltà di procedere ad una selezione delle sostanze da analizzare, concentrando l’indagine soltanto su quelle che, con un livello elevato di probabilità, possono derivare dal ciclo di produzione del rifiuto;
  • l’assenza di un preciso obbligo di procedere tout-court ad indagini analitiche sul rifiuto, quando, in virtù delle conoscenze del processo produttivo che ha generato il rifiuto, sia stata possibile una valutazione in termini di esclusione a priori della presenza nel rifiuto di sostanze da cui possa derivare un grado di pericolosità.

La Corte europea ha dunque richiamato il criterio di “pertinenza” delle sostanze da ricercare rispetto al particolare processo produttivo del rifiuto e alle caratteristiche intrinseche del rifiuto stesso; ed ha in tal modo ribadito la necessità di un bilanciamento tra principio di precauzione e principio di proporzionalità, basato, quest’ultimo, sugli elementi della fattibilità tecnica ed economica, che portano ad escludere l’obbligo per il produttore/detentore di analizzare tutte le componenti del rifiuto, potendo limitare l’analisi alle sole sostanze che, secondo una valutazione tecnica, si ritengono ragionevolmente presenti nel rifiuto.

In sostanza, la Corte europea si è posta, con tale pronuncia, nel solco dello “sviluppo sostenibile”, coerentemente con le politiche dell’Unione adottate in campo ambientale ed energetico.

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[1] Lo scopo avuto di mira è stato l’allineamento al CLP (Reg.CE 1272/2008) delle modalità di classificazione dei rifiuti, essendo il CLP l’unico sistema ritenuto sufficientemente armonizzato per poter essere applicato anche ai rifiuti.

[2] Secondo tale rigida interpretazione, per attribuire le caratteristiche di pericolo, si dovrebbe procedere in sostanza, come di seguito indicato:

  • quando di un rifiuto non sono noti i composti che lo costituiscono, occorre fare riferimento ai composti peggiori, astrattamente presenti nel rifiuto, senza tenere conto del processo produttivo di origine o delle caratteristiche del rifiuto;
  • onde escludere la caratteristica di pericolosità di rifiuti con codici a specchio, il produttore avrebbe l’onere di effettuare le analisi chimiche indagando tutte le componenti del rifiuto: dunque, analisi chimiche quantitativamente esaustive, anche se il rifiuto, per sua natura o per il tipo di processo produttivo, non possa contenere determinate sostanze.

Si erano così venuti a creare non soltanto una grave situazione di contrasto rispetto ai contenuti dei due provvedimenti UE, ma anche grosse difficoltà per le imprese e per gli addetti ai lavori, tanto da determinare, da parte del Consiglio Nazionale dei Chimici, nel febbraio 2015, una forte presa di posizione nei confronti della normativa nazionale.


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