Innovazione

  • Dal MiSE 609 milioni per digitalizzazione imprese
    È quanto prevede il decreto attuativo del “Piano voucher per le imprese” firmato dal ministro Giancarlo Giorgetti. Si tratta di un importante intervento previsto nell’ambito della Strategia italiana per la banda ultralarga che, dopo gli incentivi in favore di famiglie e scuole, punta in questa nuova fase a raggiungere le imprese. Una platea che potrà variare da un minimo di 850.000 a un massimo di 1.400.000 imprese beneficiarie

     Contratti di sviluppo: 2,2 miliardi per le filiere industriali strategiche
    Sono circa 2,2 miliardi di euro le risorse complessive destinate dal MiSE a sostegno della competitività delle filiere industriali strategiche del Paese. L’obiettivo è di realizzare almeno 40 nuovi progetti d’investimento su tutto il territorio nazionale attraverso lo strumento agevolativo dei Contratti di sviluppo nei settori: automotive, microelettronica e semiconduttori, metallo ed elettromeccanica, chimico-farmaceutico, turismo, design, moda e arredo, agroindustria e tutela ambientale

     Istituito fondo da 40 milioni per le PMI creative
    Il Ministero dello Sviluppo Economico ha istituito un fondo da 40 mln per promuove nuove imprese nei settori della cultura e dell’arte, della musica e dell’audiovisivo. L’intervento prevede contributi a fondo perduto,

  • Se un batterio produce un pigmento, come possiamo usarlo per tinteggiare i tessuti? Questa la domanda da cui Faber Futures Lab, agenzia che opera coniugando natura, design, tecnologia e società, è partita per andare incontro alle esigenze sempre più green che coinvolgono il settore tessile.

    L'industria tessile è tra le più importanti a livello di occupazione in Italia. Secondo i dati ISTAT, nel 2016 gli addetti ammontavano ad oltre tre milioni e mezzo.

    L'impatto ambientale generato è altresì forte: si stime che per tinteggiare una tonnellata di tessuto vengano usate circa duecento tonnellate d'acqua, utilizzando coloranti chimici inquinanti. Se si considera che la produzione mondiale stimata ammonta a circa 80 miliardi di capi all'anno, di cui una parte finisce per essere conferita in discarica o incenerita, l'impatto del setto sull'ambiente è enorme.

    Il progetto Coelicolor di Faber Futures nasce in seguito alla ricerca sul batterio Streptomyces Coelicolor. In collaborazoine con Ginkgo Bioworks, azienda biotecnologica specializzata nell'utilizzo dell'ingegneria genetica a scopi industriali, è stato sequenziato il genoma del microbo, al fine di estrarne il pigmento. Si è venuto a scoprire che, se il batterio viene fatto sviluppare direttamente sul tessuto, le molecole di pigmento vengono generate direttamente sulle fibre. A questo va aggiunto che, in base alle condizioni di acidità in cui si sviluppa il batterio, è possibile ottenere il pigmento desiderato.

    Un processo innovativo e a basso impatto ambientale. Si calcola che, oltre a evitare l'utilizzo di materiali chimici inquinanti, l'utilizzo di acqua è inferiore di 500 volte. Un modello che potrebbe portare a una rivoluzione del settore tessile, portando efficienza, sostenibilità e mantenendo alti gli standard estetici.

    Come dichiara Natsai Audrey Chieza, fondatrice e amministratrice delegata di Faber Futures, "Il nostro lavoro di ricerca e sviluppo mette al centro l'ecologia, che diventa l'elemento portante dei nostri progetti". Ma per centrare gli obiettivi la collaborazione tra i vari settori è fondamentale: "Stiamo lavorando nei vari settori per l'applicazione dei nostri processi: abbiamo una lista di partnership e partner che capiscono veramente che si parla di lungo termine" conclude Chieza.

    L'obiettivo finale del progetto è rendere il processo di pigmentazione dei tessuti replicabile anche in scale maggiori, così da permettere all'industria tessile di farne uso.
  • Il 23 gennaio si è tenuto il lancio della prima edizione di BioInvestIT – il Bioeconomy Investment Forum pensato per mettere in contatto imprese, start-up e ricercatori con gli investitori (Comunicato stampa disponibile al LINK).
    L’iniziativa, organizzata dal Cluster SPRING in collaborazione con ECBF - European Circular Bioeconomy Fund, Bio4dreams, Terra Next, SACE, Scientifica VC e con il supporto di una rete di partner locali (2i3T, NODES, Ticass, Università di Genova, Materias, Università di Bari, NOI TechPark) prevede 3 fasi:
    1. Ricerca e selezione di progetti e PMI;
    2. Investor Arena Meeting: in programma il 14 maggio a Milano (aperto solo agli investitori);
    3. Investment forum europeo.

    Per maggiori informazioni sulla call clicca QUI
  • La Commissione Europea ha approvato il nuovo regime di incentivazione per la produzione di biometano. In particolare, la Commissione ha adottato la decisione finale con la quale ha riconosciuto la compatibilità dello Schema di Aiuto notificato dall’Italia con il Trattato Europeo.
    Il programma di incentivazione sarà finanziato attraverso il Pnrr con 1,7 miliardi di euro, per sostenere la costruzione di impianti di produzione di biometano sostenibile nuovi o riconvertiti da precedenti produzioni, in attuazione delle indicazioni europee riportati nel piano RePowerEu.
    L’approccio privilegia l’economia circolare e la riconversione riguarda in particolare la produzione di biogas connesso ad attività agricole.
    L’Aiuto prevede un contributo del 40% sull’investimento e una tariffa incentivante sul biometano prodotto per 15 anni; l’accesso avverrà tramite aste che si svolgeranno dal 2022 al 2024.
    La misura rappresenta uno strumento qualificante per la decarbonizzazione di molti impieghi dell’energia ed è più che mai rilevante oggi, in un contesto in cui l’Italia è impegnata a ridurre il consumo di gas naturale e la propria dipendenza da fonti energetiche estere. Dunque, il biometano come vettore per ridurre le emissioni di CO2, contribuendo allo stesso tempo all’efficienza e alla sicurezza energetica.
    Dopo l’approvazione del regime di Aiuto, sarà adottato dal MITE il decreto attuativo della misura PNRR.
  • Il progetto Export the Circular Economy (ECE), iniziativa di internazionalizzazione promosso da Veneto Green Cluster pone la sfida di coniugare aspettative e obiettivi individuali o settoriali (sostenuti da singole imprese) con la volontà della rete innovativa di promuovere un valore sistemico regionale, espressione di specializzazioni (servizi, prodotti e processi) industriali ispirate al paradigma dell’economia circolare e più in generale alla sostenibilità.

    Le imprese coinvolte sono rappresentative dei multi settori presenti in Veneto Green Cluster: agroindustriale (Distillerei Bonollo Umberto spa), arredo/edilizia (Metalco srl, Ferrari BK srl), plastica (Mon Plast srl), gestione integrata delle acque (2F Water Venture srl - IWS), gestione integrata dei rifiuti (Elite Ambiente srl), guidate da Green Tech Italy, con il compito di rappresentare collettivamente la rete.

    Attraverso azioni collettive e/o individuali (partecipazione a 7 fiere internazionali in Italia e all’estero, tre esperienze di incoming e sviluppo di ben 4 piani di lancio di nuovi prodotti/servizi all’estero), ove ogni impresa affronta problematiche specifiche, è stato attribuito il compito di promuovere una nuova concezione di prodotto/servizio, che indipendentemente dalla qualità intrinseche e funzionali, fosse attenta a

    - ridurre il consumo di risorse o dare la possibilità al consumatore finale di farlo,

    - al riutilizzo di un prodotto per lo stesso scopo nella sua forma originale o con pochi miglioramenti o modifiche,

    - alla rigenerazione correlata ai processi di rinnovamento del prodotto e di rigenerazione dei componenti,

    - al riciclo nelle diverse forme di recupero e conversione di materiali.


    Dalle varie esperienze realizzate fino ad oggi nei mercati obiettivo (Europa, Nord America, Israele), in luoghi e momenti che fotografano le dinamiche internazionali, si traggono le seguenti indicazioni.

    I principali rischi sono provocati da:

    • un'inflazione più alta del previsto sulla scena mondiale, soprattutto negli Stati Uniti e nelle principali economie europee, che ha provocato un inasprimento delle condizioni finanziarie;

    • un marcato e deciso rallentamento della Cina, a causa dei focolai e delle chiusure imposte dalla recrudescenza del virus, che rallenta crescita del Paese;

    • i persistenti effetti negativi legati alla guerra in Ucraina.

    I mercati trainanti appaino gli Stati Uniti, in Europa la Polonia e Svizzera. Ottimi segnali anche per la Turchia, e per le economie asiatiche di Corea del Sud e Indonesia.

    Per i temi specifici caratterizzanti il progetto, emerge come la transizione green nella regione asiatica rappresenta una importante opportunità di export di tecnologie per l’energia da fonti rinnovabili (in particolare impianti eolici e idroelettrici), anche se rimane forte la concorrenza della Cina.

    Ricordiamo che dall’inizio del nuovo secolo i mercati emergenti della regione Asia Pacifico (APAC) hanno rappresentato il principale traino della crescita mondiale, con una media annua superiore al 6,5% nel periodo 2000-2021, risultando al contempo responsabili della produzione di circa la metà delle emissioni globali di CO2.

    Il percorso di decarbonizzazione rappresenta pertanto una sfida particolarmente rilevante per tutte le economie mondiali.

    A livello microeconomico, le imprese partecipanti al progetto segnalano le seguenti opportunità:

    • il lancio di nuovi prodotti nei mercati internazionali concepiti per valorizzare le caratteristiche “green” degli stessi, quindi aventi una composizione materica che valorizzi materiali riciclati e/o riciclabili, progettati per avere un ciclo di vita sostenibile ambientalmente, è certamente una strategia/investimento che deve essere sostenuto: il valore dei prodotti così concepiti viene apprezzato e richiesto dai clienti

    • le Fiere dimostrano ancora una volta di essere una straordinaria occasione per verificare lo stato del business, rendersi conto del livello qualitativo dei prodotti/servizi che appaiano sull’orizzonte internazionale, al fine di ottimizzare il posizionamento del prodotto/servizio: la diretta partecipazione in qualità di espositore pone l’azienda davanti ad una sfida decisamente utile, i contatti e riscontri che si registrano rispetto alle nuove proposte, sono una cartina di tornasole difficilmente sostituibile con altri canali, anche digitali

    • gli incoming rimangono una utilissima occasione per mostrare le potenzialità dell’impresa in funzione di partnership internazionali strutturate e durature.


    Al momento, viene quindi confermata la bontà delle scelte iniziali a livello di mix delle azioni da intraprendere, interessante sarà verificare, alla fine del progetto, come saranno sintetizzati i singoli piani export.

    Le opportunità del mercato internazionale sono molto elevate, tecnologie, prodotti e soluzioni green vengono richiesti in modo diffuso e impellente, ma si punta molto alla qualità e innovazione, e soprattutto ad un valore reale dimostrabile: in questo senso, le aziende devono essere reattive e consapevoli del livello qualitativo delle loro proposte, altrimenti si viene facilmente superati da una concorrenza altamente qualificata, proveniente ormai da tutte le parti del mondo.
  • L'industria siderurgica è considerata un indicatore dello stato dell' economia di un paese. La produzione mondiale, concentrata prevalentemente in Asia, supera il miliardo di tonnellate annue. Nell' ambito dell' UE la posizione dell' Italia  nella produzione di acciaio è di notevole rilevanza poichè è seconda solo alla Germania. L'industria siderurgica vanta a pieno titolo di essere protagonista dell' economia circolare visto il ruolo dei rottami metallici nella produzione di nuovo acciaio. Nei moderni impianti i rottami vengono accuratamente selezionati in base alla composizione chimica e fusi da un arco elettrico. Per ottimizzare la produzione del metallo vengono aggiunti dei materiali scorificanti che hanno la funzione di asportare le impurità e di proteggere il bagno fuso dall' ossidazione. Il risultato è che la produzione di acciaio è accompagnata da una produzione di scorie per circa il 15% del peso totale. C'era un tempo in cui gli scarti delle acciaierie venivano considerati rifiuti speciali e conseguentemente costituivano un costo considerevole per le acciaierie ed avevano un elevato impatto ambientale dal momento che venivano conferiti integralmente in apposite discariche. Per fortuna quei tempi sono lontani e l'obiettivo attuale per l'industria siderurgica è il raggiungimento di "zero waste" ovvero zero rifiuti conferiti in discarica.

    Le scorie provenienti dai diversi tipi di lavorazioni, ghisa, acciai al carbonio, acciao inox etc, seguiti alcuni accorgimenti in fase di produzione, sono oggi considerati una risorsa e trovano applicazione in diversi campi dell' edilizia e persino come fertilizzanti in agricoltura dove vengono usate per correggere la basicità del terreno. Trovano inoltre applicazione nella bonifica di aree acidificate dall' industria mineraria.

    Le scorie provenienti dagli altoforni sono utilizzate quasi interamente mentre nel caso di scorie di forni ad arco si sta cercando di incrementare la frazione trasformata in materia prima seconda. Le scorie, prodotte seguendo degli accorgimenti volti a garantire l'assenza di elementi inquinanti ed a garantire la stabilità delle proprietà fisiche e chimiche, vengono usate come sottofondi stradali e aggreganti nel cemento e nei conglomerati bituminosi; offrono spesso prestazioni superiori ai materiali di origine effusiva come porfidi e basalti. Opportunamente trattate le scorie di altoforno acquisiscono proprietà simili a quelle del cemento portland e sono classificate come cemento di tipo III. Diversi studi sono volti all' utilizzo delle scorie di acciaieria come legante idraulico da sostituire parzialmente al cemento in manufatti cementizi. In questi casi durante la produzione delle scorie vengono seguiti degli accorgimenti volti a incrementarne la reattività.

    Dalle polveri provenienti dall' abbattimento dei fumi vengono recuperati metalli come zinco e piombo. In pratica tutti i materiali secondari dell' industria siderurgica sono stati riesaminati in un' ottica di economia circolare e spesso hanno trovato impiego in sostituzione di materie prime estratte da miniere.

     In Italia sono diverse le acciaierie che hanno convertito l'intera produzione di scorie in un prodotto secondario marchiato CE e commercializzato. Lo stesso avviene in tutti i paesi industrializzati, persino in paesi come l' India e la Cina dove per decenni le considerazioni ambientali sono state ritenute secondarie e le scorie sono state accumulate per anni, sono state introdotte regole stringenti nella produzione di rifiuti e molte industrie siderurgiche sono state chiuse perché incapaci di rispettare le nuove regole. Oggi esiste in questi paesi un vero e proprio mercato delle scorie da acciaieria.

    La valorizzazione delle scorie di acciaieria è regolamentata da diverse direttive della comunità europea. Il vantaggio economico e ambientale è chiaro: oltre a venire abbattuta la quantità di rifiuti si evita l'estrazione di risorse naturali. Tuttavia, al fine del riutilizzo delle scorie, è necessario garantire la loro inerzia chimica. Vengono effettuati dei test, disciplinati da apposite norme, di cessione di elementi tossici quando il materiale entra in contatto con l'acqua.

    Sfortunatamente al momento le direttive europee sono recepite nei diversi paesi adottando criteri diversi col risultato che scorie utilizzabili in un paese non lo sono in un' altro il che va anche a detrimento della competitività delle acciaierie situate nei paesi che hanno adottato criteri più restrittivi. Dato l'enorme impatto ambientale di questo settore industriale non resta che auspicare l'adozione di linee guida comuni nell' interesse dell'ambiente e della competitività. 

     

    Riferimenti bibliografici

    1) FEDERACCIAI La valorizzazione degli aggregati di origine siderurgica (2012)

    2) M. Gelfi, G. Cornacchia, S. Conforti e R. Roberti "Caratterizzazione di scorie di acciaieria e studio del rilascio di cromo" (2008)

    3) India seeks solutions to rising LD slag from steel industries (http://www.xinhuanet.com/english/2019-08/27/c_138343104.htm)

    4) With steel waste in crosshairs, China extends its war on pollution (https://www.reuters.com/article/us-china-steel-slag/with-steel-waste-in-crosshairs-china-extends-its-war-on-pollution-idUSKBN1O90KW)

    5) Sostenibilità produttiva dell’industria siderurgica (https://www.fabbricafuturo.it/sostenibilita-produttiva-dellindustria-siderurgica/)

  • La transizione energetica passa anche dai rifiuti. Lo sa bene NextChem, società del Gruppo Marie Tecnimont, operante nel settore della chimica verde e, appunto, della transizione energetica.

    Dopo il lancio di MyReplastTM la società va ad allargare ulteriormente la sua visione circolare, tramite la creazione di MyRechemical, controllata operante nel settore delle tecnologie Waste to Chemical. L'obiettivo è quello di trasformare i vari scarti in prodotti chimici di valore e in carburanti circolari, generando un basso impatto carbonico e ambientale.

    Il punto di partenza di questo processo è la gassificazione, un processo di ossidazione parziale in cui, tramite la reazione ottenuta tra materiale ricco in carbonio e ossigeno ad alta temperatura, si ottiene una gas noto come syngas o gas di sintesi. Questo syngas è una miscela ricca di componenti - in particolare H2, CO, CO2 e CH4 - sfruttabili successivamente, tramite un processo di purificazione.

    MyRechemical, sfruttando tecnologie con brevetti di proprietà e in licenza, può produrre, partendo da rifiuti plastici eterogenei, CSS e la frazione secca della raccolta urbana, diversi gas come Idrogeno, Metanolo, Etanolo e altri derivati chimici, con un'impronta di carbonio nettamente più bassa rispetto alla produzione da fonte fossile.

    "Oggi tramite MyRechemical NextChem è in grado di proporre una piattaforma cantierabile per la riconversione di siti industriali tradizionali tramite la chimica verde” dichiara Pierroberto Folgiero, CEO di NextChem e del Gruppo Maire Tecnimont. “La grande disponibilità di rifiuti solidi urbani e plastiche non riciclabili li rende un Nuovo Petrolio che va valorizzato: grazie alla nostra ingegneria nella chimica dei rifiuti, è possibile ricreare la chimica del carbonio senza più partire da idrocarburi”.
  • Il PNRR nasce nel contesto del Next Generation EU (NGEU), un piano promosso dalla Unione europea da € 750 miliardi, che ha l’obiettivo di rilanciare l’economia europea dopo la pandemia di COVID-19 e di renderla più verde e digitale.

    L'Unione Europea ha quindi stanziato € 750 mld, di cui € 191,5 mld per l'Italia, grazie a sovvenzioni e prestiti dell'RRF (Recovery and Resilience Fund). L'integrazione di € 30,6 mld, da parte dell'Italia, avviene mediante il ricorso ad un Fondo Complementare, finanziato direttamente dal bilancio.

    Le priorità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono la realizzazione della transizione ecologica e digitale, e il recupero dei ritardi che storicamente penalizzano il Paese, relativi ai giovani, alla parità di genere e al divario territoriale.

    La digitalizzazione e l'innovazione sono gli strumenti necessari per modernizzare il Paese e riguardano lo sviluppo tecnologico dei processi produttivi, delle infrastrutture, della scuola, delle amministrazioni, degli edifici e della sanità. Lo sforzo di digitalizzazione e innovazione riguarda trasversalmente tutte le iniziative del Piano e agisce su più elementi chiave del nostro sistema economico, tra cui: la connettività per i cittadini, le imprese e le pubbliche amministrazioni e la valorizzazione del patrimonio culturale e turistico italiano.

    La transizione ecologica è l’obiettivo alla base del nuovo modello di sviluppo italiano ed europeo. Comprende interventi per ridurre le emissioni inquinanti, contrastare il dissesto del territorio e minimizzare l’impatto delle attività industriali sull’ambiente. Questa transizione rappresenta un’opportunità unica per l’Italia poiché il nostro paese ha un ecosistema naturale, agricolo e di biodiversità di valore inestimabile, è maggiormente esposto a rischi climatici data la sua configurazione geografica e può trarre un grande vantaggio dalla transizione ecologica, data la relativa scarsità di risorse tradizionali e l’abbondanza di alcune risorse rinnovabili.

    Uno degli obiettivi centrali del Piano è quello di aumentare il livello di partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, supportare la creazione di piccole e medie imprese con fondi per l'imprenditoria femminile e correggere le asimmetrie che ostacolano le pari opportunità. Per raggiungere questi obiettivi l'Italia mette in campo riforme, formazione e investimenti che toccano trasversalmente tutte le diverse aree del Piano.

    Il piano si articola in sei Missioni, che rappresentano le aree di intervento principali e sono: Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo; Rivoluzione verde e transizione ecologica; Infrastrutture per una mobilità sostenibile; Istruzione e ricerca; Inclusione e coesione; Salute.

    Il PNRR contribuirà allo sviluppo del Paese generando una crescita economica sostenibile ed inclusiva. L’impatto del programma in termini di maggiore PIL reale è compreso tra il 12,7 per cento e il 14,5 per cento nell’arco dei sei anni del piano.

    Maggiori informazioni sono reperibili sul sito dedicato al PNRR: https://italiadomani.gov.it/it/home.html


    M
    ISURE PER SOSTENERE L'ECONOMIA CIRCOLARE

    PNRR - M2C1 - Investimenti 1.1 e 1.2 - Pubblicazione degli avvisi per la presentazione delle proposte

     In conformità ai Decreti Ministeriali di approvazione dei criteri di selezione dei progetti relativi alle due linee di investimento M2C1 1.1 e 1.2 (DM 396 E 397 del 28.10.2021), sono stati pubblicati gli avvisi per la presentazione delle proposte:

    • Investimento 1.1

    AVVISO 1.1 linea A

    AVVISO 1.1 linea B

    AVVISO 1.1 linea C

    • Investimento 1.2

    AVVISO 1.2 linea A

    AVVISO 1.2 linea B

    AVVISO 1.2 linea C

    AVVISO 1.2 linea D

    La linea di investimento 1.1 prevede come destinatari/beneficiari del contributo gli EGATO Operativi. In assenza di EGATO Operativi, i Soggetti Destinatari sono, i Comuni, i quali possono operare singolarmente o nella Forma Associativa tra Comuni.

    La linea di investimento 1.2 prevede come destinatari le IMPRESE e la realizzazione di progetti “faro”; al fine di offrire un primissimo orientamento, le linee riguardano i seguenti temi:

    - Linea d’intervento A: ammodernamento (anche con ampliamento di impianti esistenti) e realizzazione di nuovi impianti per il miglioramento della raccolta, della logistica e del riciclo dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche c.d. RAEE comprese pale di turbine eoliche e pannelli fotovoltaici;

    - Linea d’intervento B: ammodernamento (anche con ampliamento di impianti esistenti) e realizzazione di nuovi impianti per il miglioramento della raccolta, della logistica e del riciclo dei rifiuti in carta e cartone;

    - Linea d’intervento C: realizzazione di nuovi impianti per il riciclo dei rifiuti plastici (attraverso riciclo meccanico, chimico, "Plastic Hubs"), compresi i rifiuti di plastica in mare (marine litter);

    - Linea d’intervento D: infrastrutturazione della raccolta delle frazioni di tessili pre-consumo e post consumo, ammodernamento dell’impiantistica e realizzazione di nuovi impianti di riciclo delle frazioni tessili in ottica sistemica cd. “Textile Hubs”.

     Le risorse sono ripartite per ciascuna Linea di Intervento come di seguito:

    - Linea d’intervento A: 150.000.000;

    - Linea d’intervento B: 150.000.000;

    - Linea d’intervento C: 150.000.000;

    - Linea d’intervento D: 150.000.000.

    Il 60% delle risorse, pari a 360.000.000,00 milioni di euro, è destinato alle Regioni del centro sud

    Il finanziamento è concesso nella forma del contributo a fondo perduto, l’ammontare del contributo non potrà superare il 35 % dei costi ammissibili; esso potrà essere aumentato di 20 punti percentuali per gli aiuti concessi alle piccole imprese e di 10 punti percentuali per gli aiuti concessi alle medie imprese

    I Soggetti interessati dovranno presentare le proprie Proposte, attraverso una Piattaforma, entro e non oltre 120 (centoventi) giorni naturali e consecutivi, decorrenti dalla data di pubblicazione degli Avvisi sul sito istituzionale del MiTE, avvenuta il 15 Ottobre 2021.

     

  • https://bandieuropei.regione.veneto.it/
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    Fondazione Cogeme e Kyoto Club lanciano per la quinta volta il premio "Verso un'economia circolare" rivolto ad Enti locali e Mondo dell'impresa.

    Il Premio intende porre l'attenzione sull'importanza del riciclo/riuso, sullo scambio di risorse e la condivisione dei processi produttivi e di gestione per migliorare la qualità degli interventi, favorendo percorsi verso sistemi eco-industriali che limitino al massimo i sottoprodotti non utilizzati, il loro smaltimento e la conseguente dispersione nell’ambiente. Promuovere le opportunità offerte dai modelli di simbiosi industriale per lo sviluppo dell’economia circolare e la diffusione delle buone pratiche realizzate.

    Possono candidarsi Enti locali e mondo dell'impresa che, negli anni 2020-2021, abbiano realizzato, avviato, o anche solo approvato ed autorizzato, interventi di diminuzione dei rifiuti e di uso efficiente dei materiali di scarto, dimostranti un attivo coinvolgimento, in tutte le fasi di sviluppo, di uno o più ulteriori attori interessati al progetto.

    Il termine per la presentazione delle candidature è venerdì 26 novembre 2021. Per candidarsi è necessario inviare la scheda di partecipazione, compilata e sottoscritta dal legale rappresentante (o da altro soggetto autorizzato) per posta elettronica mantenendo il formato PDF a: info@versounaeconomiacircolare.it

    Per maggiori informazioni consultare il sito: Premio di eccellenza – Verso un'economia circolare (versounaeconomiacircolare.it)

  • Il progetto eco-innovation nasce all'interno di Veneto Green Cluster, Rete Innovativa Regionale riconosciuta dalla Regione Veneto, e del progetto SARR: Sistema Avanzato di Recupero Rifiuti.

    I risultati ottenuti all'interno del progetto SARR per il recupero di risorse precedentemente destinate a discarica sono stati positivi in termini di sperimentazione di nuove tecnologie, in tutti e cinque i progetti:
    • Valorizzazione delle scorie di acciaierie: Formulazione base del legante idraulico proveniente da MPS d'acciaieria
    • Recupero e riciclo del cartongesso in edilizia: Criteri di selezione adottati per il processo di recupero/riciclo del cartongesso
    • Valorizzazione FORSU per impianto integrato "biogas e alghe": Definizione delle caratteristiche del FORSU pre-trattata alle condizioni operative ottimali dei reattori anaerobici di dark fermentation e metanogenesi
    • Recupero plastiche eterogenee per asfalti modificati: Individuazione di una miscela di materie plastiche di scarto da riciclare e test validazione dell'asfalto riciclato nobilitato
    • Recupero molecole bioattive da scarti di frutta: Individuazione (progettazione) di nuovi prodotti nutraceutici da scarti di frutta. Ottenimento di un ingrediente alimentare ad elevata attività biologica; valutazione della sua stabilità

    Questa attività di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie per il recupero delle risorse dai rifiuti ha generato dei riscontri positivi in termini di:
    • Riduzione delle emissioni di CO2
    • Risparmio delle risorse idriche
    • Probabile risparmio energetico
    È in tale contesto che nasce e si sviluppa il progetto INNOVATION.IT. Il progetto è focalizzato nella verifica del risparmio di energia ed acqua nel processo di recupero dei rifiuti, con un particolare riguardo alla riduzione di CO2. A questo scopo è stata implementata, all'interno del portale, una pagina di simulazione che permette di calcolare il risparmio giornaliero in termini di anidride carbonica e di energia.

    Allo stato attuale i calcoli si possono effettuare su quattro casi concreti, affrontati in precedenza da Veneto Green Cluster:
    1. impiego di scarti di acciaieria in edilizia
    2. recupero del FORSU in impianto integrato biogas-alghe
    3. recupero delle plastiche eterogenee per la produzione di asfalti modificati
    4. recupero del cartongesso con prodotti espandenti per realizzazione di isolanti termici in edilizia
    L'obiettivo futuro è quello di elaborare un vero e proprio Modello Predittivo per il calcolo delle emissioni di CO2 e l'eventuale risparmio energetico e in termini di risorse idriche, in riferimento a nuove tecnologie per il recupero dei rifiuti.
  • Il presente articolo riporta lo stato dell’arte, conoscenze e tecnologie disponibili per la produzione di biopolimeri, famiglia molto ampia di soluzioni, all’interno della quale si annoverano i biopolimeri PHA. Ci si soffermerà soprattutto su questa famiglia, ricercando tipologie di materiali e relativi produttori, oggi sul mercato.

    Con il termine biopolimeri e/o bioplastiche si designano solitamente 2 classi di materiali e quindi di prodotti finali diversi per comportamento: una è quella di materiali biodegradabili e compostabili (contraddistinta pertanto da una particolare funzionalità), l’altra è quella delle plastiche derivate da materiali rinnovabili o RRM (contraddistinta quindi dal tipo di materiale di origine) (sito internet di xpolymers, 2022).

    L’American Society of Testing and Materials (ASTM) definisce la degradazione un “processo irreversibile, che porta ad un cambiamento della struttura del materiale, sottoforma di perdita di proprietà meccaniche, danneggiamento, frammentazione o depolimerizzazione. La degradazione è influenzata dall’ambiente e può presentare una velocità costante o variabile nel tempo”.

    La biodegradazione è definita come “la capacità di subire decomposizione generando anidride carbonica, metano, acqua, composti inorganici o biomassa, in cui il meccanismo predominante è l’azione enzimatica dei micro-organismi”.

    I polimeri biodegradabili sono materie plastiche degradabili per effetto di micro-organismi naturali, come batteri, funghi o alghe.

    L'intero processo di biodegradazione di un polimero o di qualsiasi materiale organico può essere rappresentato dal seguente semplice processo chimico (sito internet di xpolymers, 2022)

     Si noti che il processo richiede ossigeno ed è quindi un processo di biodegradazione aerobica. Alcuni contesti particolari, come sedimenti di acque profonde, digestori anaerobici o terreni paludosi privi di ossigeno, sono percorsi chimici alternativi per la biodegradazione. Tali processi di biodegradazione anaerobica producono una diversa miscela di prodotti, come il metano. Le materie plastiche biodegradabili si rompono per meccanismi naturali, rilasciando materiali di base. Quando si citano gli i composti oxodegradabili, si considerano i polimeri diorigine fossile che contengono additivi che causano un parziale degrado della catena molecolare sottoforma di ossigeno e calore. Sebbene il risultato siano frammenti molto piccoli, questa non è considerata una decomposizione completa. In questo caso, il termine "biodegradabile" è fuorviante.

    Una particolare forma di biodegradazione è la compostabilità,che può essere infatti definita una forma completa di biodegradazione da cui scaturisce una sostanza denominata “compost”. Rappresenta, appunto, un processo accelerato di deterioramento biologico ottenuto in appositi impianti detti di “compostaggio”. In tali impianti il fenomeno è controllato ed ottimizzato allo scopo di raggiungere alte velocità di conversione e controllo della qualità del compost finale, da impiegare poi come fertilizzante nel settore agricolo. I polimeri compostabili sono materie plastiche che si degradano durante il compostaggio, liberando anidride carbonica, acqua, composti inorganici e biomassa ad una velocità di degradazione compatibile con quella di altri materiali compostabili.

    Le plastiche derivate da risorse rinnovabili sono esclusivamente quelle che derivano da biomassa, ovvero sostanze di origine vegetale e animale. Ne consegue che questa ultima classe di materiali non deve necessariamente essere compostabile o biodegradabile, mentre i materiali compostabili e biodegradabili non devono necessariamente derivare da risorse rinnovabili.

    Non esiste uno standard generale che definisca una quantità minima di contenuto di materiale rinnovabile richiesto per la denominazione "biopolimero".

    Il termine "bioplastiche" si riferisce al materiale della matrice utilizzato ma spesso si fa riferimento anche a polimeri che contengono riempitivi rinnovabili, generalmente sotto forma di fibre naturali. Esiste una vasta gamma di riempitivi, dalla farina di legno, a basso costo, alle fibre che vengono utilizzate come rinforzi (canapa, lino). In ogni caso, influenzano positivamente il bilancio di COdi questi materiali.

    I polimeri derivati ​​da materiali naturali non sono una novità, anche se questo non è stato particolarmente evidenziato dai produttori. Esempi includono olio di ricino PA11 o polimeri di cellulosa C modificati. Tuttavia, negli ultimi anni sono state aggiunte nuove importanti varietà, in particolare poliesteri a base di zucchero o di amido di origine biologica. I produttori stanno inoltre cercando sempre più di sintetizzare molte materie plastiche classiche, come PE e PET, da materie prime rinnovabili.

    È interessante notare che i materiali che dovrebbero effettivamente essere considerati prodotti naturali puri senza modifiche chimiche, e quindi non sono "materie plastiche" (ad esempio amido, lignina), sono ora chiamati bioplastiche perché possono essere lavorati utilizzando le comuni tecnologie di lavorazione delle materie plastiche, in competizione per applicazioni di plastica. Attualmente, l'uso di biopolimeri non si basa su argomenti tecnici, ma su obiettivi ambientali generali. Per una corretta valutazione sarebbe necessario effettuare un'analisi tecnico-economica del ciclo di vita di tutti gli effetti. Un criterio importante è l'energia totale accumulata utilizzata per la produzione di un materiale che a sua volta può essere convertito in un equivalente di CO2. Qui, i biopolimeri dovrebbero funzionare bene in quanto saranno accreditati con un bilancio "negativo" di CO2.

    Per anni, la principale molecola utilizzata dall'industria della bioplastica è stata l'amido, un polisaccaride contenuto in riso, mais, grano, patate e manioca. Alle alte temperature, l'amido termoplastico può essere prodotto con l'aggiunta di plastificanti come sorbitolo o glicerina e combinato con lignina e fibre di cellulosa per migliorarne le proprietà. La bioplastica così ottenuta può essere facilmente compostata a livello industriale e biodegrada più velocemente rispetto ai polimeri fossili. D'altra parte, può rimanere nell'ambiente acquatico per diversi anni prima di essere completamente distrutto. I materiali termoplastici possono anche essere prodotti da fonti naturali diverse dall'amido, incluso l'alginato, estratto da alghe brune, chitosano ottenuto dalla chitina presente.

    Classificazione di biopolimeri

    Biopolimeri basati su fonti rinnovabili (ovvero, l'attenzione è rivolta all'origine del materiale di base utilizzato).
    Materie plastiche biodegradabili e compostabili secondo EN 13432 o ASTM D 6400 o standard simili (il focus è la compostabilità del prodotto finale).

    Classificazione della plastica (aeuropean Bioplastics Association, 2008)

     

    Come illustrato in figura, si distinguono i polimeri da base fossile, nei quadranti in basso, dai polimeri da fonte rinnovabile, nei quadranti in alto. A sinistra, sono evidenziati i polimeri non biodegradabili (che possono essere da fonte fossile o rinnovabile) e a destra i polimeri biodegradabili (anche in questo caso, possono essere da fonte rinnovabile ma anche da fonte fossile).

    Tra tutti i biopolimeri identificati, ad oggi i PHA sono i più promettenti in quanto possono sostituire le plastiche fossili grazie a proprietà fisico chimiche eccellenti. I PHA sono i poliesteri degli idrossialcanoati (HA) e vengono sintetizzati nel citoplasma di alcuni batteri come riserva energetica che permette loro di sopravvivere anche in condizioni ambientali variabili (vedere figura 13). Tali polimeri sono per loro stessa natura biodegradabili al 100%, e, se ottenuti da prodotti di scarto, sono 100% rinnovabili e rappresentano un ottimo esempio di economia circolare (Wu et al., 2021).
    I PHA si presentano sotto forma di granuli dalle dimensioni di 0.2 – 0.7 µm che sono costituiti da PHA al 97.7%, l’1.8% da proteine e il rimanente 0.5% da fosfolipidi e possono arrivare a costituire fino al 90% del peso secco del batterio (Behera et al., 2022). Essi sono contenuti all’interno del granulo e sono circondati da una membrana di lipidi e proteine che regolano le interazioni tra il polimero ed il citoplasma .

    Granuli di PHA contenuti all’interno di Pseudomonas putida CA-3 (Ward et al., 2005).

     

    Rappresentazione schematica di un granulo di PHA (Martínez et al., 2009).

     

    Ad oggi, si conoscono circa 300 ceppi batterici capaci di produrre PHA che possono essere divisi in due categorie in base alle condizioni in cui avviene la sintesi di PHA (Pakalapati et al., 2018).  Il primo gruppo necessità che uno o più tra i seguenti nutrienti sia limitante o assente: azoto, fosforo, magnesio, potassio, ossigeno e carbonio. Al contrario, i microorganismi appartenenti al secondo gruppo sono in grado di accumulare PHA durante la fase di crescita e quindi non hanno bisogno dell’assenza di alcun nutrimento come Alcaligenes latus.(Philip et al., 2007; Quillaguamán et al., 2010; Reddy et al., 2003).

    Tra i batteri appartenenti al primo gruppo, il ceppo Cupriavidus necatorspicca per la capacità di accumulare PHA fino all’80% del suo peso quando fosforo e azoto sono completamente assenti e per questo è tra i batteri più usati a livello industriale. Allo stesso tempo i batteri appartenenti al ceppo Pseudomonas extorquens e Pseudomonas oleovoranssono in grado di produrre PHA quando i nutrienti non sono completamente assenti. (Atlić et al., 2011).

    Ad oggi si conoscono più di 150 monomeri diversi di PHA, che, a seconda del numero di atomi di carbonio che costituiscono il monomero, si possono dividere in catena corta (scl-PHA) con un massimo 5 atomi di C o catena medio/lunga (mcl-PHA) con 6 o più atomi di C. Quest’ultima la tipologia più importante in ambiti industriali, farmaceutici e degli imballaggi. In tale categoria ricadono i monomeri 3-hydroxybutyrate (3HB), 4-hydroxybutyrate (4HB) and the 3-hydorxyvalerate (3HV) dalle cui combinazioni è possibile estrarre polimeri quali poly(3HB-co-3HV), poly(3HB-co-4HB) or poly(3HB-co-3HV-co-4HB).



  • Nonostante esistano criticità nel riciclaggio di dispositivi di protezione individuale, quali la mancata possibilità di trattare DPI di scarto ospedalieri, la mancanza di una filiera territoriale unificata e specializzata nel trattamento di rifiuti da DPI  ed infine la mancanza di un metodo strutturato per la raccolta differenziata dei DPI, risulta ugualmente interessante lo studio di un ideale processo di recupero dei DPI in via teorica, non essendoci la possibilità di eseguire prove sperimentali al fine di verificarne il funzionamento per le problematiche suddette.

    Partendo dal presupposto che il TNT, ampiamente utilizzato nei DPI (quali mascherine, camici, cuffie, …), è spesso realizzato in poliolefine, in particolare PP, ed in alcuni casi in PET, entrambi polimeri per i quali esiste un sistema di riciclo meccanico strutturato ed efficace, grazie alle quantità sufficienti e alla qualità del riciclato, se correttamente separato, si può quindi pensare ad un riciclo meccanico per la frazione di poliolefine costituenti i DPI. La restante parte costituita da polimeri misti (PET, PA6, EVA, PU, PC) ed eventualmente una frazione di metallo (che costituisce il nasello della maggior parte delle mascherine) è potenzialmente trattabile tramite riciclo chimico per pirogassificazione.

    Mentre il riciclo chimico non necessita di pre-trattamenti del rifiuto, se non la loro raccolta, il riciclo meccanico richiede invece i seguenti processi: 

    1. Raccolta differenziata di mascherine chirurgiche ed FFP2 e di copricamici
    2. Sterilizzazione
    3. Macinazione
    4. Separazione
    5. Essiccazione
    6. Densificazione
    7. Estrusione (ed eventuale miscelazione con additivi)
    8. Rigranulazione

     Le tecnologie richieste per i processi sopra elencati esistono ma non sono unificate e non trattano rifiuti da DPI; risulta inoltre impossibile realizzare uno studio in scala di laboratorio che consideri tutti questi step poiché impianti che utilizzano le suddette tecnologie richiedono ingenti quantità di materiale (per esempio un impianto di densificazione richiede tonnellate di materiale). Estrusione, miscelazione e pellettizzazione/granulazione costituiscono invece processi che possono essere studiati in scala di laboratorio, per valutare la qualità del riciclato proveniente da un reprocessing di questo tipo. È infatti necessario uno studio della qualità del materiale riciclato poiché il processo trova ragione d’essere solo se il prodotto in uscita ha mercato (è quindi di buona qualità ed ha un basso costo). Su manufatti realizzati con fibre polimeriche (tessuti, TNT) è ancor più importante valutare la qualità del riciclato poiché questi, una volta riciclati, spesso non sono adatti a ritornare alla tecnologia di provenienza e mostrano inoltre un comportamento meccanico fragile. Una volta valutate le proprietà del materiale riciclato tal quale (tramite caratterizzazione fisico-meccanica, reologica e termica dello stesso), è possibile valutarne, in base all’applicazione a cui viene destinato, l’additivazione con compatibilizzanti, cariche inorganiche o polimero vergine, per migliorare le performance fisico-meccaniche e la lavorabilità. Per lo studio di miscela in scala di laboratorio tramite estrusione, miscelazione e pellettizzazione sarà necessario utilizzare un polimero in granuli (non TNT perché necessiterebbe della fase di densificazione) con lo stesso comportamento reologico (quindi simili caratteristiche di processo) di quello utilizzato per la realizzazione dei 2 tipi di TNT costituenti i DPI, ovvero granulo per meltblown e spunbond.

    Si riporta quindi uno schema di un processo teorico di rigenerazione dei DPI, in cui si tratta per via meccanica la frazione di DPI costituita da mascherine, ricche in poliolefine (PP, PE), e per via chimica (pirogassificazione) i restanti DPI misti.


    A fronte della predisposizione dei diversi step di pretrattamento dello scarto prima di estrusione e rigranulazione, risulta necessario approfondire le tecnologie esistenti per ciascuna fase.
    Viene riportato di seguito un breve escursus dei processi esistenti per ciascuno step del processo di riciclo meccanico ipotizzato. Essendo le tecnologie in continua evoluzione, questo tema necessita di continui aggiornamenti, non solo per una migliore conoscenza e screening dello stato dell’arte a livello industriale, ma anche per effettuare una scelta ponderata su quale tecnologia sia, per il riciclo di DPI, la migliore in ogni fase del processo.
    Processi esistenti per i pre-trattamenti nel processo di riciclo meccanico: 

    • RACCOLTA DIFFERENZIATA: per i rifiuti non ospedalieri è realizzabile predisponendo punti di raccolta, mentre i rifiuti ospedalieri non sono trattabili se non per termovalorizzazione.
    • STERILIZZAZIONE:
      • a caldo:
        • sterilizzazione a vapore (o con caldo umido o in autoclave): all’interno di un recipiente ermetico viene iniettato vapore acqueo sotto pressione. È utilizzato per dispositivi medici resistenti al calore ed è un metodo affidabile, economico e non inquinante.
        • Sterilizzazione a calore secco: si utilizza aria calda secca (180°C per 30min o 160°C per 2h in forno) a pressione atmosferica. È un metodo meno utilizzato poiché si rischia di danneggiare il materiale e poiché nel calore secco i batteri possono entrare in sporulazione.
      • con gas:
        • sterilizzazione con ossido di etilene: questo è un agente alchilante che danneggia il DNA dei microrganismi, impedendone la riproduzione. Essendo efficace a basse temperature è quindi un metodo indicato per materiali sensibili a vapore acqueo e calore.
        • Sterilizzazione con formaldeide: questo agente ad azione battericida funziona in maniera simile all’ossido di etilene, ma offre alcuni vantaggi in più, infatti non genera residui tossici e non comporta rischi di esplosione.
      • al plasma: questo metodo utilizza il perossido di idrogeno, eccitato con un campo elettromagnetico affinché si formino radicali liberi di ossigeno dall’alto potere sterilizzante. Il processo avviene a bassa temperatura ed è quindi adatto a materiali termosensibili (polimeri).
      • mediante irraggiamento:
        • con l’utilizzo di raggi ultravioletti
        • con l’utilizzo di raggi infrarossi
      • analisi biologiche applicabili
    • MACINAZIONE: questo processo può essere eseguito a secco o a umido (in presenza di acqua), con l’utilizzo di:
      • Frantumatori: frantumatore conico (pezzatura di 0.5-7cm), a cilindri, a lame, a ganasce, a martelli, single/double/three/four roll crusher
      • Molino a coltelli
      • Molino a rulli
      • Molino a cilindri
      • Molino a cilindri ad umido
      • Molino a molazza (ad umido)
      • Molino a palmenti (per materiali molto duri)
      • Molino a martelli (per materiali fibrosi)
      • Molino a palle
      • Molini micronizzatori a camera verticale o a getti contrapposti
      • Molino micronizzatore spirale
      • Macinazione sotto gas inerti per sostante infiammabili
    • SEPARAZIONE: si distinguono
      • macroseparazione (macrosorting), eseguita su bottiglie/ contenitoritramite:
        • separazione manuale,
        • ottica (con l’utilizzo di sensori),
        • spettroscopica (NIR),
        • ai raggi X,
        • identificazione assistita da laser,
        • marker system;
      • microseparazione (microsorting) per plastiche dopo riduzione di dimensioni:
        • flottazione,
        • froth-flotation,
        • dissoluzione selettiva,
        • separazione elettrostica,
    • ESSICCAZIONE: si hanno le seguenti tecnologie:
      • Asciugatura ad aria calda (deumidificatore per polimeri non igroscopici)
      • Asciugatura tramite contatto
      • Essiccatore (per polimeri non igroscopici)
      • Asciugatura ad infrarossi
      • Liofilizzazione (a bassa pressione)
      • Essiccazione a letto fluido
      • Essiccazione a microonde e a radiofrequenza.
    • DENSIFICAZIONE: processo di sinterizzazione che può essere:
      • Termico,
      • Termomeccanico,
      • elettrotermico o elettro-termomeccanico,
      • con laser SLS.
    • ESTRUSIONE (ed eventuale miscelazione con additivi): si possono utilizzare estrusori monovite o bivite, il processo garantisce una sufficiente miscelazione tra diversi componenti di un blend (compounding) e gli additivi o masterbatch da aggiungere vanno valutati in base all’applicazione a cui la miscela dev’essere destinata.
    • RIGRANULAZIONE
  • Tra il 1920 e il 1940, in Europa furono sviluppati sistemi di gassificazione per autotrazione e nel corso della seconda guerra mondiale migliaia di veicoli furono equipaggiati con dispositivi a gas di gasogeno. In Italia si era abituati alla scarsità della benzina ben prima della guerra, quale conseguenza della guerra del 1935-36 con l'Etiopia. Il definitivo affermarsi del petrolio a basso costo causò negli anni 70 il totale abbandono dei sistemi di pirolisi/gassificazione e quindi, lo sviluppo, lo studio e la ricerca sul processo di pirolisi e gassificazione si arrestarono bruscamente. Negli anni 80, i primi segnali della crisi petrolifera causarono un rinnovato interesse nei confronti della gassificazione e si assistette ad alcuni e specifici programmi di ricerca. Per molto tempo le ricerche sono state mirate a migliorare vecchie soluzioni impiantistiche: la situazione è confermata dal fatto che molti impianti attuali hanno delle significative criticità costruttive e funzionali. L’attuale necessità è rivolta invece, a velocizzare la reazione del processo, perché lo scopo è massimizzare la produzione del gas, minimizzando il tempo di residenza del composto.

    Durante il progetto sono stati individuati, rispettivamente, le tipologie di DPI utilizzabili, e le tecnologie funzionali ad una linea di gassificazione preferita alla pirolisi, Nella fase di sviluppo e realizzazione delle unità funzionali presso i fornitori, sono state eseguite prove adeguate, ossia verifiche in bianco dei funzionamenti delle unità del prototipo. Sono previste verifiche del corretto funzionamento di tutti i componenti, singolarmente, e nel loro insieme, con simulazione dei loop di avviamento e controllo, delle routine di sicurezza e verifica dell’allineamento tra quadro di controllo e utenze in campo. Le prove saranno eseguite con i fornitori, e rappresentano periodi di training per il responsabile che dovrà successivamente gestire in campo l’impianto.

    Il progetto ha previsto la realizzazione di una linea pilota: la superficie impiegata ad ospitare il modulo di gassificazione progettato da 200 Kw, caricamento, gassificazione e cogenerazione, è circa di 600 metri quadrati.
    Le condizioni di base in riferimento alle matrici in ingresso sono le seguenti: 

    • Potere calorifico non inferiore 16.00 MJ/Kg sulla materia secca
    • Umidità massima ammissibile 10% all'ingresso del gassificatore
    • I rifiuti devono essere trattati, triturati ed essiccati prima di essere inviati alla coclea di caricamento del gassificatore
    • I materiali devono essere forniti nella base di caricamento dell’impianto con granulometria non superiore a ø 3 cm oppure quadrato di 3*3*3 cm
    • Peso specifico minimo 200 Kg/Mc
    • Quantità annua di prodotti smaltiti circa 1.800 tonnellate (questo dato dipende dal potere calorifico dei rifiuti inseriti nel gassificatore).
    • Assenza o comunque presenze insignificanti di materiali ferrosi, minerali, o comunque materiali inquinanti che provocano la produzione di particelle o componenti che possano pregiudicare il buon funzionamento del motore.

    In presenza di inquinanti quali metalli pesanti, saranno estratti dall’impianto miscelati al carbone attivo o sali minerali inorganici, oppure nei liquidi di condensazione e questi dovranno essere successivamente trattati per il recupero o conferiti per lo smaltimento.

    La gassificazione è la rottura di macromolecole per effetto di temperature elevate in carenza di ossigeno, in molecole di minor peso molecolare. A causa della temperatura elevata, i legami interatomici s’indeboliscono e si rompono formando dei composti instabili intermedi chiamati radicali che si ricombinano in strutture molecolari più semplici. La rottura dei legami molecolari forma una serie di prodotti a diverso peso molecolare che sono suddivisi in tre frazioni tutte combustibili: Una frazione gassosa (SYNGAS), una frazione che condensa a temperatura ambiente (TAR) e un residuo carbonioso (CHAR). 

    - (SYNGAS) - Il SYNGAS è un gas di “sintesi” di tutti gli elementi energetici volatili, recuperabili. La frazione gassosa ha un buon potere calorifico ed è utilizzato oggi, per produrre energia elettrica e termica.

     - (TAR) -Il TAR è costituito da idrocarburi pesanti che per effetto della temperatura di processo, sono gassosi, ma si condensano in una varietà di sostanze organiche (oli), in solidi catramosi e in liquidi (acqua), e ha anch’esso un contenuto di energia notevole.

     - (CHAR) -Il CHAR costituisce la parte solida che rimane del materiale trattato. E’ composto da un residuo carbonioso finale di buone proprietà combustibili, oltre che da ceneri e inerti.

     Il trattamento nell’impianto prevede quindi la gassificazione in continuo, di sottoprodotti e rifiuti dell’agricoltura e dell’industria e in queste condizioni si ha una disgregazione dei composti solidi e la produzione di Syngas che può essere usato come un normale combustibile gassoso. Il Syngas viene depurato ad alta temperatura e subisce ulteriori depurazioni a freddo; il gas trattato è utilizzato in un sistema a ciclo combinato per la produzione di energia elettrica e termica attraverso un motore a combustione interna.

  • Maschere e respiratori sono probabilmente tra i DPI più importanti. Sono una barriera fisica alle vie respiratorie verso le goccioline che possono entrare attraverso il naso e la bocca ed all'espulsione delle goccioline muco-salivarie dai soggetti infetti (Face Masks in the New COVID-19 Normal: Materials, Testing, and Perspectives", Research, vol. 2020, Article ID 7286735, 40 pages, 2020). Il loro ruolo è particolarmente importante nel contesto della pandemia COVID-19. La capacità di filtraggio, e quindi il livello di protezione contro inquinanti ed agenti patogeni, dipende dai materiali utilizzati e dal design. La dimensioni dei contaminanti presenti nell'aria differiscono molto. Il virus SARS-CoV-2 ha una dimensione che va da 60 a 140 nm, più piccolo di batteri, polvere e polline. Pertanto, maschere e respiratori realizzati con materiali con dimensioni dei pori più grandi, come cotone e tessuto sintetico, non sono in grado di filtrare efficacemente, rispetto ai dispositivi realizzati con materiali con dimensioni dei pori più piccole. Oltre alla capacità di filtraggio, fattori come il comfort dell'utente nell’indossare il DPI e la traspirabilità variano anche tra i diversi modelli.

    Perché un metodo di decontaminazione per mascherine possa essere considerato efficace deve soddisfare diversi requisiti: gli agenti patogeni devono essere uccisi ed inattivati; non deve insorgere riduzione nella capacità di filtrazione verso patogeni e particolato; tutti i componenti della mascherina, quali gli elastici ed il nasello, devono rimanere integri; la vestibilità del dispositivo deve rimanere inalterata; il trattamento di decontaminazione non deve lasciare sostanze chimiche o sottoprodotti che potrebbero pregiudicare la salute e il benessere degli utenti. Molteplici articoli e siti web riportano scoperte e risultati delle diverse attività di ricerca in quest’area. Ad esempio, il sito web N96DECON (https://www.n95decon.org/) fornisce fonti accessibili on-line sui metodi di decontaminazione di mascherine N95. In generale, esistono molti modi e molti agenti chimici che possono essere utilizzati per disinfettare dagli agenti patogeni le nostre mani, piccoli oggetti e superfici comuni con elevata frequenza di contatto, ma non tutti questi possono essere pratici per la decontaminazione di mascherine.

    Comune è la generazione di vapori di perossido di idrogeno per la disinfezione di spazi chiusi, come uffici, postazioni di lavoro, reparti ospedalieri e interni di autobus, treni e aeromobili, nonché per sterilizzare apparecchiature mediche e di laboratorio e strumenti in camere chiuse appositamente progettate. I vapori di perossido di idrogeno sono considerati una valida tecnologia per la decontaminazione di mascherine e di DPI in generale. L’inattivazione dei micro-organismi e dei virus attraverso l’uso del perossido di idrogeno si ottiene principalmente attraverso la reazione di ossidazione del perossido di idrogeno con le proteine in essi contenuti ed attraverso la rottura degli acidi nucleici causata dai radicali liberi idrossilici ed idroperossidici che vengono prodotti dalla reazione inziale del perossido di idrogeno con le proteine (Mode of action of hydrogen peroxide and other oxidizing agents: differences between liquid and gas forms. J Antimicrobial Chemotherapy. 2010;65(10):2108–2115)

    Durante il trattamento, i vapori di perossido riescono a raggiungere tutte le aree in ombra e le fessure presenti nella mascherina, garantendo così un’azione di decontaminazione in profondità. L’efficacia dell’azione di decontaminazione del trattamento con vapori di perossido di idrogeno ed il suo effetto sulla prestazione della mascherina e sulla sua integrità strutturale dipende dal tempo di esposizione, dalla concentrazione dei vapori di perossido, dalla modalità di esecuzione del trattamento che spesso è costituito dalle fasi di deumidificazione, di conditioning, di stasi, di gassing e di aereazione. Inoltre, poiché il perossido di idrogeno decompone rapidamente in ossigeno ed acqua, la presenza di residui non costituisce un serio problema.

    La tecnologia con vapori di perossido di idrogeno è considerata in generale un metodo efficace per la decontaminazione delle mascherine da batteri e da virus, senza comprometterne le prestazioni. Ad esempio, a seguito di trattamenti con vapori di perossido fino a 55 minuti e a temperatura fino a 80°C nelle mascherine N95 è stato possibile riscontrare solo una lieve opacizzazione del nasello metallico, ma nessuna significativa alterazione della capacità di filtrazione (Effect of decontamination on the filtration efficiency of two filtering facepiece respirator models,” Journal of the International Society for Respiratory Protection, vol. 24, pp. 93–107, 2007); l’assenza di danneggiamento nei trattamenti di decontaminazione con vapori di perossido di idrogeno è stata validata da una campagna di test condotta da Battelle, nella quale per le mascherine N95 è stata verificata la capacità di soddisfare i requisiti in termini di capacità di filtrazione e di vestibilità anche dopo 50 cicli di trattamento eseguiti con il generatore di vapori di perossido di idrogeno Bioquell Clarus C, sebbene gli elastici cominciassero a deteriorarsi (Final Report for the Bioquell Hydrogen Peroxide Vapor (HPV) Decontamination for Reuse of N95 Respirators, Battelle Columbus, OH, USA, 2016).

    Nel contesto della pandemia COVID19, ampio studio è stato dedicato alla valutazione dell'idoneità della tecnologia con vapori di perossido di idrogeno per il trattamento delle mascherine contaminate da SARS-CoV-2. Ad esempio, è stata dimostrata (Hydrogen peroxide vapor sterilization of N95 respirators for reuse, medRxiv, 2020) nel caso di mascherine N95 la completa eradicazione dei tre fagi T1, T7 e Pseudomonas Phi6, che mimano il virus SARS-COV-2, grazie al a trattamento con vapori di perossido di idrogeno, in un ciclo costituito da una fase di 10 minuti di conditioning, una fase di 30-40 minuti di gassing con vapori di perossido di idrogeno con concentrazione di 16 g/m3, una fase di dwell di 25 minuti ed una fase finale di aerazione di 150 minuti, senza riscontrare alcuna deformazione del dispositivo dopo 5 cicli di trattamento. Analogamente, è stato possibile verificare (N95 mask decontamination using standard hospital sterilization technologies, medRxiv, 2020) la scomparsa del virus SARS-COV-2 su mascherine N95 a seguito di un trattamento di un’ora con fase di deumidificazione di 10 minuti, fase di conditioning di 3 minuti, fase di decontaminazione di 30 minuti e fase di areazione di 20 minuti, con un picco della concentrazione dei vapori di perossido di idrogeno pari a 750 ppm; le mascherine hanno potuto subire 10 cicli di trattamento senza alcuna alterazione delle loro prestazioni. Nessuna perdita di funzionalità, sia in termini di capacità di filtrazione che di vestibilità, è stata riscontrata (Effect of various decontamination procedures on disposable N95 mask integrity and SARS-CoV-2 infectivity, medRxiv, 2020) in mascherine N95 dopo due cicli di trattamento con vapori di perossido di idrogeno, con una fase di gassing di 20 minuti ad una concentrazione di circa 500 ppm, una fase di dwelling di 60 minuti ad una concentrazione di circa 420 ppm ed una fase di areazione di 210 minuti a temperatura ambiente, verificando l’assenza di virus al termine di ciascun ciclo di trattamento. E’ invece nota l’incompatibilità del perossido di idrogeno con la cellulosa, che viene utilizzata in alcune tipologie di mascherine N95 fra i materiali costituenti (Hydrogen Peroxide Methods for Decontaminating N95 Filtering Facepiece Respirators Applied Biosafety Volume 00, Number 00, 2021)

  • Le malattie infettive rimangono uno dei problemi sanitari più importanti al mondo che colpiscono milioni di persone. La nuova pandemia di SARS-COV-2 ha ulteriormente aumentato la pressione per lo sviluppo di nuovi agenti antibatterici efficienti per prevenire la diffusione di agenti patogeni dall'ambiente agli esseri umani. La disinfezione delle superfici emerge come una strategia vincente per la mitigazione dei fenomeni di multiresistenza ai farmaci, prevenendo la diffusione di agenti patogeni. Ad oggi sono note molte diverse metodologie di trattamenti fisici e chimici per combattere la diffusione delle infezioni batteriche.Gli antibiotici sono stati impiegati in modo massiccio per far fronte alle emergenze sanitarie globali, ma l'abuso di antibiotici ha generato batteri multiresistenti ai farmaci, ostacolando l'efficienza dei trattamenti contro le infezioni. Pertanto, lo sviluppo di antimicrobici alternativi è fondamentale per la sopravvivenza umana. Inoltre, a causa della pandemia di SARS-COV-2, l'uso di disinfettanti per superfici è emerso come una best practice fondamentale per la prevenzione. Tuttavia, questi prodotti vengono rilasciati nell’ambiente, generando un crescente inquinamento terrestre e del sistema acquatico.

    Una valida alternativa a questo problema è la possibilità di modificare le superfici dei materiali con prodotti antimicrobici/antibatterici/antivirus che rimangono ancorati alla superficie senza rilasciare sostanze tossiche nell’ambiente. Ad oggi esistono solo sporadici esempi di trattamenti superficiali permanenti e ancora meno quelli disponibili sul mercato.

    Ad oggi esistono alcuni esempi di mascherine DPI (FFP2 e FFP3), usate per la gestione delle diffusione del virus SARS-CoV-2, sono disponibili in commercio con proprietà antimicrobiche e/o con proprietà idrorepellenti o anti-goccia. Questi trattamenti non sono generalmente impiegati per le mascherine chirurgiche.

    Si ritiene utile, al fine del progetto Eco-DPI e del task 8 all’interno del WP-RI-3, fare una breve panoramica su queste due proprietà funzionali e su alcune soluzioni ad oggi applicate.

    Da anni sono venduti e impiegati diverse tipologie di rivestimenti o coating antibatterici per prodotti tessili ma l’argomento è sempre d’interesse, soprattutto in questo periodo dove l’attenzione all’igiene è ai massimi livelli.

    Se parliamo di batteri, i prodotti tessili sono ottime sedi per prendere casa e riprodursi, soprattutto se l’ambiente è particolarmente favorevole, come una buona umidità, 37°C di temperatura e una fonte di nutrimento. Per esempio, l’abbigliamento intimo è un habitat ideale, così come tute e capi per lo sport, ma anche calze e interno calzature.

    In questi casi la proliferazione batterica è notevole, con formazione di odori sgradevoli, compromissione dell’igiene e, in certi casi, anche rischio di alcune patologie.

    Molteplici sono i prodotti tessili dove un trattamento antibatterico di questo tipo risulta utile, come ad esempio i camici dei medici ospedalieri e l’abbigliamento di personale a contatto con la gente, particolarmente soggetti a sviluppo batterico. Visitare pazienti, frequentare corsie, corridoi, studi e ambienti comuni, comporta notevole contaminazione da parte di agenti spesso patogeni. I camici dei  medici sono sterilizzati, ma dopo pochi giorni la carica batterica diventa rilevante e un trattamento antibatterico opportuno, resistente a lavaggi multipli ed efficace contro batteri Gram+ e Gram- , è di grande utilità.

    Una problematica simile si pone per personale a contatto con farmaci, alimenti, preparazioni alimentari, studi dentistici, estetici, farmacisti, laboratori di analisi, ma anche banchi di vendita di carni, formaggi e cibi sfusi in genere. Sono casi in cui la garanzia di un abbigliamento igienico e sanitizzato, privo di crescita batterica, fa la differenza.

    La recente pandemia ha elevato la nostra sensibilità nei confronti dei germi patogeni e dei virus. Tenendo ben presente che il Covid19 è un virus e non un batterio, sicuramente disporre di abbigliamento e accessori tessili o d’altro genere che siano antibatterici è già una garanzia di igiene e di sanitizzazione. Si aggiunge poi che molti antibatterici riducono drasticamente il tempo di attività dei virus con cui vengono a contatto.

    Molti sono gli studi scientifici che stimano il tempo in cui il SARS-CoV-2 può rimanere rilevabile nell’aria, sulle superfici di differenti materiali e su oggetti di comune uso. Per quanto riguarda i tessuti, una ricerca americana dal titolo Persistence of Vaccinia Virus on Cotton and Wool Fabrics (R.Sidwell e altri), di circa 50 anni fa, forniva indicazioni utili circa il comportamento dei virus su tessuti e sulle interazioni virus-tessuti, anche se non si parla espressamente di Coronavirus SARS-CoV-2.

    I risultati più interessanti riportano:

    • I virus applicati tramite aerosol persistono più a lungo di quelli applicati tramite inoculo
    • I virus sono più persistenti in ambiente asciutto e meno persistenti con umidità elevata
    • Il tipo di fibra e la costruzione tessile influenzano la persistenza dei virus
    • I virus persistono più a lungo sulla lana e meno a lungo sul cotone

    Le fibre di lana sono costituite principalmente da cheratina e hanno una cuticola di squame sovrapposte. Le fibre di cotone sono tubi di cellulosa appiattiti, ritorti con piccola quantità di pectine e cere nella parete esterna. Il contenuto di umidità naturale della lana è superiore a quello del cotone (quindi dovrebbe disattivarsi prima) ma, probabilmente, il virus trova più “spazi” nelle fibre di lana rispetto al cotone, e quindi potrebbe mantenersi attivo più a lungo.

    Poiché l’attività virale di solito diminuisce in proporzione al tempo, si può concludere che il virus perda la sua attività durante il tempo di magazzinaggio dei prodotti tessili.

    Come si può osservare nella Figura 1, fatta con microscopio elettronico, su una fibra di lana contaminata da SARS-CoV-2, la particella virale (puntino rosso) è quasi invisibile rispetto alla fibra. I virus solitamente viaggiano in raggruppamenti ma, anche mettendo insieme 1000 particelle, non si raggiungono “grappoli” di dimensioni molto rilevanti. Le superfici scabre costituiscono per il virus immense voragini, in fondo alle quali può finire, ben protetto, in attesa che un liquido o una forza elettrostatica lo ripeschi.

    Il virus non è fatto da molte componenti. Una è la capsula che serve ad inglobare il virus. È di natura lipidica, è cioè un “grasso”. Volendo arrecare danni al SARS-CoV-2, questa capsula grassa è un ottimo punto di attacco a disposizione dei prodotti antivirali. In chimica si dice che il simile scioglie il suo simile. Una sostanza grassa può dissolvere la capsula virale e per questo il sapone è ottimo.

    Altro punto debole per disattivare il virus sono le proteine dalle quali è circondato: in particolare gli “spuntoni”, quella “corona” che tutti abbiamo visto nelle raffigurazioni del Coronavirus. Gli studi dimostrano che questi spilli sono di una glicoproteina a spillo. Questa consente al virus di attraccare e legarsi alle proteine superficiali ACE2 delle cellule epiteliali umane del tratto respiratorio, infettando queste cellule (e noi con loro). L’interazione della glicoproteina a spillo con la proteina di superficie ACE2 della cellula ospite umana è un passaggio cruciale per l’infezione Covid-19. Se si disattivano le proteine, il virus non si disgrega ma sarà inerme.

    Per le informazioni che ad oggi si hanno, questo virus si disattiva prima di tutto col sapone, poi con l’ipoclorito diluito, con alcol al 70-90%, con l’ozono, con i raggi UVC, con il calore, con liquidi alcalini. Questi mezzi però non sono utili per rendere un tessuto antivirale.

    La letteratura scientifica accorre fortunatamente in aiuto dei tessili indicando che le nanoparticelle (NP) di vari metalli e di alcuni ossidi metallici sono molto promettenti per inattivare i virus. Hanno dimensioni paragonabili ai virus e per questo interagiscono con esso facilmente.

    Ecco alcune di queste nanoparticelle antivirali: 

    • ossido di zinco (ZnO NPs),
    • ossido rameoso (CuO NPs),
    • argento (Ag NPs),
    • ioduro di rame (CuI NPs),
    • oro su nanoparticelle di silice (Au@SiO2 NPs)
    • alcuni cationi di ammonio quaternario (comunemente chiamati QAS)

     Va peraltro rilevato come, nel caso di tessili a contatto con la pelle, le nanoparticelle di metalli non siano particolarmente ben viste. Pare infatti che, causa le loro dimensioni nanometriche, possano essere rilasciate e assorbite attraverso l’epidermide.

    I principi attivi per trattamenti tessili antivirali oggi disponibili sono costituiti da una (o più) delle sostanze seguenti. 

    • Cloruro di argento
    • Biossido di titanio
    • Composti di ammonio quaternario
    • Argento adsorbito su biossido di silicio
    • Polieteramina – epicloridrina
    • “Vescicole” lipidiche

    Cloruro di Argento (AgCl)
    Il cloruro d’argento è incolore; presenta bassa solubilità e lento rilascio di ioni argento che conferiscono proprietà antibatteriche al substrato. Le nanoparticelle d’argento sono state studiate principalmente per il loro potenziale antimicrobico contro i batteri. Esse hanno dimostrato di essere anche attive contro diversi tipi di virus, tra cui il virus dell’HIV, il virus dell’epatite B, il virus dell’herpes simplex, un virus respiratorio e il vaiolo delle scimmie. Secondo altro studio le nanostrutture metalliche del cloruro di argento costituiscono una grande opportunità per sviluppare nuove terapie antivirali contro un ampio spettro di virus, riducendone l’attività come altri antivirali convenzionali.

    Biossido di titanio (TiO2)
    Superfici rivestite con TiO2 presentano proprietà di ridotta adesione nei confronti del particolato in genere. Le particelle virali potrebbero quindi avere maggiore difficoltà ad aderire a tessuti così trattati. Il TiO2 ha inoltre proprietà fotocatalitica quando attivato con ultravioletti “vicini” (UVA), presenti nella luce solare. In queste condizioni, il TiO2 genera delle “Reactive Oxygen Species” (ROS), sostanze fortemente ossidanti in grado di trasformare sostanze organiche (come i batteri) in molecole inorganiche, come acqua e anidride carbonica. Si sviluppa così azione antimicrobica per decomposizione di batteri e funghi. In considerazione del meccanismo di azione, il TiO2 non è considerato un biocida, pur svolgendo azione antibatterica.

    Composti di ammonio quaternario (QACs)
    I composti di ammonio quaternario hanno dimostrato attività antimicrobica. Alcuni QACs (contenenti catene alchiliche lunghe) vengono usati come antimicrobici e disinfettanti anche di uso comune, come il benzalconio cloruro ( “Bialcol®”) e altri. I QACs sono efficienti anche contro funghi e amebe. Circa l’attività antivirale, essa pare manifestarsi contro virus “incapsulati” (enveloped) come il Coronavirus SARS-CoV- 2 [9]. Questo effetto dipenderebbe da due fattori: l’affinità dei QACs verso le proteine che costituiscono la “corona” dei Coronavirus e la natura lipidica di cui è costituito l’involucro del Coronavirus. L’efficacia dei QACs sarebbe invece assai limitata contro i virus non-incapsulati.

    Polieteramina – epicloridrina 
    Vi sono alcuni studi, in particolare sulla Polieteramina i cui risultati dimostrano l’efficacia contro i batteri Staphylococcus aureus (gram +) e la capacità di legare il DNA attraverso la complessazione ionica [10], con effetto antivirale. Si deve ricordare che, affinché una particella di virus si disattivi, deve finire proprio sopra, o a fianco, di una nanoparticella antivirale. E quindi l’attività antivirale del trattamento dipende dal grado di ricopertura delle fibre con il principio attivo antivirale. Resta fermo il fatto che è impossibile ricoprire tutta la superficie delle fibre, ma solo una minima parte.

    Qualsiasi sia il principio attivo che si usa, è necessario dimostrare che il tessuto sia “antivirale”, ossia in grado di disattivare il virus che si deposita sopra. Si deve comunque tenere presente che anche sopra un tessuto non trattato il virus si disattiva sempre e comunque in un determinato tempo, dipende appunto dal fattore ‘tempo’. Quindi un tessuto dichiarato ‘antivirale’ deve essere in grado di disattivare il virus in un tempo decisamente inferiore rispetto al medesimo tessuto non trattato mantenuto nelle stesse condizioni. Purtroppo, dimostrare questo è molto difficile, più complesso e più costoso che verificare se un tessuto è antibatterico. E il problema sono proprio i virus: non si vedono e non si contano agevolmente e non si comportano certo come i batteri.

    La prova dell’attività antivirale di un tessuto si può fare solo in laboratorio e al momento c’è una sola norma utile di riferimento (la ISO 18184) assai complessa. Per quanto riguarda gli antivirali per i tessuti contro il Covid19, sono ancora pochi i produttori chimici che si stanno cimentando. Ad oggi, non sembra essere emersa una tecnologia migliore, né il principio attivo di elezione (anche se il cloruro di argento parrebbe favorito).

    È importante sottolineare che svariati dei principi attivi sopra riportati hanno delle restrizioni nell’ambito della normativa REACH e perciò non possono essere impiegati per il trattamento di tessuti. Rientrano in queste categorie le nanoparticelle e l’epicloridrina. Attualmente anche l’Argento il cui uso è estremamente diffuso per il trattamento antibatterico dei tessuti, è oggetto di studio e potrebbe a breve essere inserito nelle sostanze che non possono essere impiegate per il trattamento di tessuti. Questo implica che in un arco temporale piuttosto breve il settore tessile e dei DPI si troverà ad affrontare un grave problema per la commercializzazione di materiali aventi proprietà antibatteriche/antivirali.

    In questo contesto il lavoro svolto nel presente progetto è di importanza strategica per poter soddisfare le nuove esigenze del mercato, identificando tecniche di trattamento superficiale dei DPI che impieghino sostanze non tossiche e quindi non soggette a restrizioni dal regolamento REACH.

  • I materiali plastici che vengono dismessi a fine vita (End Of Life – EOL) possono essere gestiti in diversi modi:

    • Riciclo di ordine zero o riutilizzo,
    • Riciclo primario o diretto/a ciclo chiuso: è un riciclo di tipo meccanico in cui si utilizza materiale già formato come materia prima secondaria nello stesso ciclo produttivo,
    • Riciclo secondario o indiretto/a ciclo aperto o declassamento (downcycling): è di tipo meccanico e utilizza materiale già formato come materia prima secondaria per un articolo di valore inferiore a quello originario,
    • Riciclo terziario, anche detto rigenerazione o riciclo chimico/delle materie prime (feedstock),
    • Riciclo quaternario o termovalorizzazione, ovvero combustione per recupero energetico,
    • Conferimento in discarica: è il metodo meno desiderabile nell’ottica dell’economia circolare, infatti nessuna delle risorse materiali utilizzate per produrre la plastica viene recuperata e si aggiungono anche rischi a lungo termine di contaminazione del suolo e delle acque sotterranee da parte di alcuni additivi e sottoprodotti di degradazione nella plastica, che possono diventare inquinanti organici persistenti.

    Le opzioni di riciclo suddette, ad eccezione del conferimento in discarica che non prevede un utilizzo dello scarto, sono categorizzate, da norma, in quattro classi, come si vede nella figura sottostante.

    È fondamentale notare che non esiste un’unica strategia vincente per ogni materiale plastico (one-method-treats-all), infatti ciascun polimero ha necessità diverse dettate dalla sua particolare natura (termoplastico, termoindurente) o dalla forma del prodotto (monocomponente, monostrato oppure multicomponente, multistrato), e ogni azienda o società ha possibilità e limiti diversificati.

    A livello economico vi sono due fattori chiave che influenzano la fattibilità del riciclo dei polimeri:

    • il prezzo del riciclato rispetto al vergine (influenzato dal prezzo del petrolio, materia prima per la produzione di plastica), che dev’essere inferiore o al massimo uguale, poiché la qualità della plastica recuperata è tipicamente inferiore a quella della plastica vergine,
    • il costo del processo di riciclo rispetto a forme alternative di smaltimento.

    Due obiettivi fondamentali sono quindi colmare il divario tra proprietà della resina riciclata e vergine e diminuire il costo del processo di riciclo, aumentandone l’efficienza.

     Il riciclo meccanico prevede una serie di operazioni fisiche sullo scarto, quali separazione, macinazione, lavaggio, essiccazione, eventuale aggiunta di polimero vergine o additivi, rifusione e ottenimento del prodotto finale. Può essere a ciclo chiuso, quando lo scarto rientra nel processo produttivo tal quale a seguito di macinazione e rifusione, mantenendo inalterate le proprietà iniziale, o a ciclo aperto, nel caso in cui lo scarto sia misto, contaminato o degradato e quindi impiegabile in un’applicazione di minor valore rispetto a quella originaria.

    Questo metodo risulta essere il trattamento migliore considerando il fatto che riduce al minimo l’effetto sui cambiamenti climatici, sul consumo di risorse naturali e sulla domanda energetica. Tuttavia il riciclo meccanico ha anche un forte limite: spesso i polimeri riciclati esibiscono qualità inferiore al polimero vergine a causa di:

    • incompatibilità chimica, a causa della immiscibilità intrinseca a livello molecolare, e differenze nei requisiti di lavorazione di scarti misti,
    • riduzione del peso molecolare medio delle catene dovuta a fenomeni di degradazione termomeccanica o chimica durante l’utilizzo o il reprocessing.

    Ciò si traduce in un limitato numero di volte in cui un polimero può essere riprocessato, dopodiché dovrà essere definitivamente dismesso. Si può pensare quindi ad un recupero delle proprietà meccaniche degli scarti con l’aggiunta di polimero vergine o additivi, ma si deve far attenzione a non perdere la sostenibilità economica ed ambientale in un processo di riciclo di questo tipo. È quindi un metodo inadatto a mantenere il valore materiale nel sistema a lungo termine.

    Si possono distinguere due tecniche di riciclo meccanico, che differiscono tra loro per la qualità dell’output: riciclo primario e secondario.

    Il riciclo primario, noto anche come re-estrusione (re-extrusion) o riciclo a ciclo chiuso (closed loop process), prevede il diretto ritrattamento meccanico degli scarti incontaminati, solitamente nello stabilimento di produzione, a formare un prodotto con proprietà equivalenti al materiale vergine; durante la produzione di manufatti, infatti, si formano spesso sfridi, ovvero scarti di lavorazione (come per esempio i canali in una stampa ad iniezione), che vengono  macinati e rifusi (possibilità aperta solo a polimeri termoplastici, mentre i termoindurenti sono infusibili ed insolubili a causa della reticolazione che si ha in fase di formatura) e reintrodotti nel ciclo di produzione per ottenere manufatti costituiti dallo stesso materiale. I grandi vantaggi di questa tecnologia sono la semplicità, il basso costo e il mantenimento del valore del materiale tale e quale, mentre il limite è la ridotta applicabilità, infatti è realizzabile quasi solamente quando il costituente del polimero è di composizione chimica nota, efficacemente separato dalle fonti di contaminazione, perciò esente da impurità, e stabilizzato contro la degradazione durante il ritrattamento e l'uso successivo, perciò con proprietà molto vicine a quelle dei polimeri vergini.

    Il riciclo secondario, detto anche riciclo indiretto/a ciclo aperto o declassamento (downcycling), è sempre un ritrattamento meccanico ma genera prodotti che presentano proprietà inferiori. Solitamente si applica a polimeri a composizione non nota e mista o in presenza di impurità. Il materiale di scarto subisce macinazione, lavaggio, essicazione, successiva separazione e, infine, le diverse tipologie di polimero ottenute vengono riprocessate singolarmente per ottenere gli oggetti riciclati; come già detto, la possibilità di reprocessing è aperta solo ai polimeri termoplastici. Gli scarti diretti e uscenti dal riciclo secondario risultano degradati, con proprietà termo-meccaniche inferiori ai relativi polimeri vergini, perciò non più adatti alle applicazioni originarie. L’abbattimento delle proprietà è da ricercare nel ridotto peso molecolare medio delle molecole nel polimero di scarto rispetto a quelle del polimero da sintesi, a causa dell’effetto combinato di sforzi meccanici e temperatura; a questo si aggiunge, nei polimeri misti o contaminati, il fatto che spesso polimeri diversi sono incompatibili, perciò la miscela di scarto risulta peggiore rispetto ai componenti del blend puri presi singolarmente.

    È interessante notare che i rifiuti di plastica pre-consumo/post-industriali vengono attualmente riciclati in misura maggiore rispetto a quelli post-consumo poiché sono relativamente puri e disponibili da un numero inferiore di fonti. Tuttavia, i volumi di rifiuti post-consumo sono fino a cinque volte maggiori di quelli generati nell'industria e quindi è necessario occuparsi correttamente della raccolta e del riciclo di tutti i tipi di rifiuti, al fine di ottenere tassi di riciclo complessivi elevati.

     Un forte limite del riciclo meccanico, come detto, è la perdita di proprietà spesso osservata nei materiali da riciclo. È fondamentale la conoscenza dello stato di degradazione di un polimero, poiché essa determina l’applicabilità del polimero stesso e la definizione delle possibilità di ottimizzazione.

    Durante la vita utile e ugualmente durante il processo di riciclo le materie plastiche risentono delle condizioni fisiche e chimiche in cui si trovano, come la presenza rispettivamente di sforzi meccanici e di calore, sostanze ossidanti, radiazioni luminose, reazioni di idrolisi.

    È possibile determinare lo stato di alterazione del polimero tramite le seguenti analisi:

    • La spettroscopia ad infrarossi a trasformata di Fourier (FT-IR) è in grado di rilevare le modifiche nei gruppi funzionali di un polimero;
    • Con il microscopio elettronico è possibile osservare variazioni morfologiche del composto;
    • l’OIT (oxidative induction time), parametro che misura la stabilità termo-ossidativa, è determinabile con un’analisi termogravimetrica (TGA) o con la calorimetria differenziale a scansione (DSC);
    • La stabilità termo-meccanica si misura tramite un’analisi dinamico-meccanica (DMA);
    • Analisi meccaniche, come prova a trazione o ad impatto, sono in grado di stabilire le variazioni nelle proprietà meccaniche;
    • Le proprietà reologiche, in particolare l’Indice di fluidità del fuso (MFI), danno un’indicazione delle variazioni del peso molecolare medio del polimero, poiché dipendono da questo, mentre l’analisi cromatografica a permeazione di gel (GPC) permette di analizzare la distribuzione dei pesi molecolari.

    La degradazione è la perdita della struttura molecolare attraverso reazioni chimiche che portano alla scissione delle macromolecole e/o alla formazione di reticolazione. Il processo di degradazione inizia con la scissione omolitica di legami primari covalenti carbonio-carbonio, che generano catene molecolari corte con un atomo radicale, altamente reattivo; questo può dare reazioni di disproporzione o trasferimenti di catena che producono quindi catene molecolari corte o reticolazione. Nel caso di depolimerizzazione si ha quindi una riduzione del peso molecolare medio, ovvero un aumento dell’Indice di fluidità del fuso (MFI) e una variazione della distribuzione dei pesi molecolari delle catene polimeriche; ciò implica un peggioramento delle proprietà meccaniche, quali per esempio allungamento a rottura e resistenza all’impatto. Al contrario se si hanno reticolazioni, queste provocano una riduzione del MFI, che si traduce in una minor lavorabilità. Con la degradazione non si ha solo una variazione delle proprietà reologiche e meccaniche, ma anche chimiche (gruppi funzionali), morfologiche (grado di cristallinità) e termiche (temperatura di transizione vetrosa, di fusione, di distorsione termica).

    I fattori estrinseci responsabili della degradazione dei polimeri possono essere classificati in due gruppi principali: meccanico e chimico. La degradazione per azione meccanica si può verificare in tutte le fasi di vita del polimero: formatura, esercizio e riciclo. È dovuta all’azione di sforzi di diversa natura (taglio, flessione, torsione o trazione) talvolta combinati ad elevate temperature in presenza di ossigeno. La degradazione per cause chimiche può essere: termodecomposizione, ossidazione, idrolisi, fotodegradazione o biodegradazione, ad opera dei microrganismi.

    Infine è utile notare che la presenza di molecole a basso peso molecolare nel materiale da riciclo può essere data dal processo degradativo di depolimerizzazione, come detto, oppure può essere causata dalla presenza di solventi, catalizzatori e additivi utilizzati nel precedente ciclo di vita del materiale; questi sono considerati contaminanti e la loro presenza, anche se in traccia, può danneggiare fortemente le proprietà finali del manufatto.

     

  • Arriva da ENEA un nuovo processo per il recupero dei pannelli fotovoltaici a fine vita, processo con un basso impatto ambientale e a basso consumo di energia. Il progetto nasce dalla necessità di affrontare il sempre crescente numero di rifiuti costituiti dai pannelli fotovoltaici e la loro gestione. Questo lo scopo per cui Marco Tammaro, responsabile del laboratorio per il Riuso, Riciclo, il Recupero e la valorizzazione di Rifiuti e Materiali, ha lavorato alla ricerca di questa nuova metodologia. Il brevetto vede i diritti condivisi al 50% con la start-up Beta-Tech Srl, partner di progetto.

    Il processo consiste in un trattamento termico, atto ad "ammorbidire" gli strati polimerici dei pannelli, e un successivo trattamento meccanico a "strappo". L'idea nasce dalla struttura a strati dei moduli fotovoltaici. I pannelli sono infatti costituiti da uno strato di vetro protettivo, un leggero strato di materiale polimerico a fare da collante, l'Etilene Vinil Acetato, celle di silicio, contatti elettrici metallici, un ulteriore strato di EVA e un supporto posteriore generalmente in polivinilfluoruro. Tutto rinchiuso in una cornice di alluminio.

    "Con questo processo si evitano: il rischio di degrado dei materiali, inutili dispendi di energia e si riducono sensibilmente pericolose emissioni gassose" spiega Tammaro. "Inoltre, l'impiantistica necessaria è semplice, adatta a un trattamento in continuo e altamente automatizzabile, senza necessità di un'atmosfera controllata mediante uso di gas specifici" conclude il responsabile.

    Nello specifico il brevetto prevede di sfruttare un rammollimento locale che sia appena sufficiente a staccare gli strati polimerici, così da realizzare un processo continuo e automatizzato. Il progetto prevede infatti il riscaldamento dei pannelli durante l'avanzamento degli stessi su un nastro trasportatore, con il successivo strappo automatizzato degli strati polimerici.
  • Arriva dall'ateneo italiano e dall'università del Massachusetts la ricerca. Il polietilene, considerato un materiale utile quasi esclusivamente per imballaggi e sacchetti in plastica, è sempre stato scartato dal settore tessile in quanto, per le sue caratteristiche, non assorbe e non lascia evaporare l'acqua. Ora però, con il metodo studiato dal team di ricerca internazionale, è stato trovato il modo di rendere traspirante il materiale.

    Lo studio pubblicato su Nature Sustainability, dal titolo "Sustainable polyethylene fabrics with engineered moisture transport for passive cooling", che vede Matteo Alberghini del Politecnico di Torino e Svetlana Boriskina del MIT come coordinatori, è arrivato a dimostrare che è possibile produrre fibre e filati in polietilene in grado di eliminare l'umidità. Nel loro lavoro sono riusciti a ottenere dei tessuti con caratteristiche traspiranti anche migliori dei normali tessuti in cotone, nylon o poliestere. Secondo i calcoli da loro effettuati, questi tessuti in polietilene hanno anche un impatto ambientale minore rispetto agli altri tessuti. Questo studio, inoltre, potrebbe portare a incentivare il riciclo di imballaggi e altri manufatti in polietilene in tessuti indossabili, visto anche il vantaggio economico.

    Come spiega Svetlana Boriskina "Una molecola di polietilene ha una spina dorsale in carbonio, con ciascun atomo di carbonio attaccato a un atomo di idrogeno. Questa struttura semplice e ripetuta forma un'architettura che resiste all'adesione dell'acqua". Il team, per ovviare a questo problema, ha sviluppato un processo che, tramite estrusione del polietilene polverizzato, ha portato a un'ossidazione parziale del materiale, facendolo diventare leggermente idrofilo. Con l'ausilio di un secondo estrusore i risultati sono stati sorprendenti: il materiale è rimasto impermeabile ma gli spazi che si sono venuti a creare tra le fibre di polietilene hanno reso il tessuto traspirante. Per concludere il team si è poi concentrato sulla progettazione delle fibre attraverso modellazione computazionale, al fine di migliorarne le prestazioni, scoprendo che, con la giusta disposizione delle fibre, il materiale favorisce la traspirazione in maniera migliore.

    Uno dei problemi che hanno dovuto affrontare i ricercatori riguarda il colore: il polietilene, infatti, difficilmente si va a legare con altre molecole. La risposta è stata trovata, nuovamente, nell'estrusione. Invece di utilizzare i classici metodi di tinta una volta ottenuto il filato, i ricercatori hanno aggiunto il pigmento alla polvere di PE prima dell'estrusione, con la realizzazione di una colorazione a secco.

    Il materiale ottenuto ha tutte le caratteristiche per essere sostenibile ed ecologico. La colorazione a secco permette di evitare l'enorme consumo di acqua richiesta dagli altri tipi di tessuto, oltre all'utilizzo dei coloranti chimici inquinanti. Inoltre il materiale può provenire dal riciclo ed essere a sua volta riciclato più volte in maniera semplice. Da considerare anche che, per le sue caratteristiche, richiede meno energia per essere lavato e asciugato.

    Al momento lo studio si concentra sulle possibili applicazioni in ambito tecnico sportivo e militare e per la realizzazione di tute aerospaziali.
  • Il 16 dicembre si è tenuto il workshop finale del progetto ECOdesign e riciclo di DPI in una filiera industriale circolare ,occasione per la presentazione dei risultati da parte dei WP leader e partner progettuali.
    Le presentazioni e maggiori info sono visibili nella sezione PROGETTI -> EcoDPI.
    Di seguito il programma dell'evento.


    Ore 10. Indirizzi di saluto

    Antonio Casotto- Presidente della RIR Veneto Green Cluster

    Andrea GattolinPresidente Chimicambiente srl

    Tommaso Dalla Palma – Direzione ricerca innovazione ed energia della Regione del Veneto

     

    Ore 10.15 Relazioni tecniche di descrizione del progetto EcoDPI

    Enrico Cancino - Coordinatore del progetto. Green Tech Italy

    Michele Modesti – WP-RI-1 Leader. Dip. Ingegneria industriale Università degli Studi di Padova

    Francesco Fianelli - WP-RI-2 Leader. Innoven srl

    Valentina Beghetto – WP-RI-3 Leader. Dip. Scienze molecolari e nanosistemi Università Cà Foscari di Venezia

    Antonio Casotto -WP-SS-1 Leader. Elite Ambiente srl

    Domenico Stocchi -WP-SS-2 Leader. Il Sentiero International Campus srl

    Alberto Bertucco - WP-RI-4 Leader. Dip. Ingegneria industriale Università degli Studi di Padova

     

    Ore 12.15. Relazioni di approfondimento e prospettive

    Andrea Sandi – DPI per la protezione e rilevazione COVID. 3Dfast srl

    Manuela Brotto Nuovi impieghi dei materiali riciclati per prodotti ecosostenibli. Opigeo srl

    Valeria Noale –Un percorso verso il report di sostenibilità. Melloni & Partners

ICE Toolkit

Boîtes à outils d'aide à la décision

pour l'économie circulaire


pour la transition Verte


pour l'analyse du cycle de vie


Processus de Simulation